31 ago 2017

sinestesia
si•ne•ste•ṣì•a/
sostantivo femminile
Nella critica letteraria, l'associazione espressiva tra due parole pertinenti a due diverse sfere sensoriali (per es. parole calde, silenzio verde ).

Questo è la definizione di sinestesia che ho trovato sul dizionario.
Si suppone che debba scrivere qualcosa a riguardo ma poi mi accorgo che più che ci penso, e più che le sinestesie migliori te le sei già prese tu.

Tu, con i tuoi pensieri roventi che frantumano il cristallo delle mie gelide insicurezze.
Tu, con la tua risata dolceamara, che sa di miele e gelsomino arabo.
Tu, con la melodia delle tue dita sottili, sempre intente a suonare una musica invisibile quando preparano un drum, scrivono poesie, spremono arance, annaffiano piante.
Perché non sei affatto ciò che sembri, ma a quanto pare l’ho capito solo io.

Io, con la mia assordante solitudine, che sbatto continuamente in faccia a chi mi ama e vorrebbe solo aiutarmi.
Io, con le mie emozioni appena tiepide, che fioriscono e appassiscono in una notte, come boccioli di ciliegio a primavera.
Io, che in fondo un po’ t’amo e proprio perché t’amo lascio che tu mi ferisca con le tue parole affilate e i tuoi sguardi aspri.
E che ti lascio prendermi in giro quando mi sfugge quant’è bella la luna, perché in fondo so che ti piace da impazzire.
Siamo simili, solo che non vuoi ammetterlo.
Tu, con la tua ostinazione ruvida, che finisce con lo scorticare vivo chiunque provi ad avvicinarsi.

Tu ti sei preso le migliori sinestesie, i migliori ossimori e le migliori metafore.
Tu ti sei preso la miglior poesia che potessi scrivere.

Photo by Lin Yung Cheng (instagram: 3cm_lin)

13 ago 2017

Le catene

Di tutti gli attrezzi scenici che Henri Lierre aveva lasciato, il suo cappello a cilindro era senz'altro il più curioso.
Non perché fosse particolarmente bello o appariscente, né perché nascondesse dentro qualche particolare trucco o doppio fondo: era un semplicissimo cappello nero con la tesa un po' consumata e la fodera ingiallita.
Però c'era qualcosa nel modo in cui se ne stava, adagiato sul tavolino di mogano, che lo faceva sembrare vivo, quasi osservasse chiunque entrava nella carrozza.
Gli altri oggetti avevano preso subito un'aria triste e impolverata, tipica dei mobili dimenticati troppo a lungo in soffitta, mentre il cappello restava vigile, sul chi va là. La sua presenza metteva così a disagio, che a un certo punto si sentiva il bisogno di uscire a prendere una boccata d'aria.
Solo Marie, l'assistente di Henri, sembrava capace di rimanere chiusa fra quelle cianfrusaglie per ore.
Seguiva l'illusionista in tutti i suoi numeri da quando aveva tredici anni e sua madre l'aveva venduta al circo di Donna Banù per un pugno di farina, nel porto di Lione.
Henri Lierre l'aveva trovata che piangeva, nascosta dietro un barile di sidro, e le aveva detto: «Nelle tue vene scorre la magia».

L'illusionista era conosciuto per la sua severità e per la capacità di provare lo stesso numero centinaia di volte, finché non veniva perfetto. Era stata dura fargli da assistente, ma la meraviglia dei suoi trucchi ripagavano Marie per ogni goccia di sudore.
Il circo di Donna Banù era il più amato d'Europa: ogni anno girava il continente e si spingeva fino in Turchia, dove faceva il pieno di ninnoli e spezie nei bazar con lo scopo di rivenderli agli spettatori creduloni, spacciandoli per talismani sciaccia-iella e ingredienti per pozioni magiche.
Donna Banù, adesso anziana ma ancora florida ed energica, si vociferava fosse la figlia di una delle trecento mogli del sultano di Istanbul  e che, stufa di banchetti e danze del ventre, fosse diventata un'acrobata.
La leggenda voleva che fosse fuggita dal palazzo per girare il mondo a fianco di un pirata olandese e che, unica superstite di un naufragio sulle coste indiane, per anni si fosse guadagnata da vivere vendendo banane e dormendo su letti di chiodi.
Il suo circo contava un vasto numero di artisti di talento e fenomeni da baraccone, ma l'attrazione più amata dal pubblico era sempre stata lui: l'illusionista Henri Lierre, il più grande mago del mondo.
I critici facevano a gomitate per accaparrarsi un posto nelle prime file e, quando il circo arrivava a Parigi, la sua città natale, la sua foto in bianco e nero compariva sulla prima pagina di tutti i rotocalchi. Non c'era da stupirsi se, una volta morto, gli incassi del circo erano più che dimezzati.

La sua scomparsa era stata del tutto inaspettata.
Henri era terrorizzato dall'acqua; non aveva mai problemi a farsi seppellire vivo dentro una minuscola bara, né lo intimoriva tuffarsi dentro una fossa di serpenti velenosi: solo l'acqua lo mandava in tilt.
Marie si era insospettita quando il mago aveva ideato il numero con la vasca e, quella sera d'estate, nel piazzale illuminato, aveva avuto più paura di tutti gli spettatori messi insieme perché, in fondo, sapeva che Henri non era pronto per affrontare la sua paura più grande.
Era stata lei a incatenargli mani e piedi ma non aveva avuto il coraggio di spingerlo nella vasca: ci si tuffò da solo, flettendo le ginocchia e sbilanciandosi in avanti. I primi minuti si dibatté per liberarsi, poi il suo corpo si rilassò con uno spasmo e i suoi occhi spalancati e immobili fissarono il pubblico per l'ultima volta, a testa all'ingiù.
Donna Banù era furiosa e aveva preso quella morte come un affronto personale.
Non si dava pace e, in ogni città in cui il circo approdava, faceva affiggere dei manifesti con scritto: POSIZIONE VACANTE - CERCASI CON URGENZA MAGO ILLUSIONISTA.
E, visto che nessuno meglio di lei conosceva i trucchi di Henri, era stata proprio Marie l'incaricata di esaminare tutti gli aspiranti maghi d'Europa.
Passava giornate intere a guardare i soliti noiosi numeri con i fazzoletti colorati, le colombine e le carte da gioco, a dire "avanti il prossimo", a fingersi interessata alle presentazioni pompose di numeri mediocri; ma era tutto inutile, nessuno era bravo come Henri.
Più il tempo passava e più la ragazza si intristiva pensando al suo maestro che se n'era andato.

A volte sedeva su un baule e restava per ore a guardare il cilindro: forse perché Henri l'aveva indossato centinaia di volte, ma le sembrava che in quei momenti lui vivesse ancora attraverso la sua stoffa lisa.
Si ritrovava a parlarci, come se potesse sentirla e, anche se non riceveva alcuna risposta, dopo si sentiva un po' meglio.
Se c'era qualcosa che aveva imparato, lavorando in un circo, è che le persone vanno e vengono, ma i vuoti che si lasciano dietro sono diversi. Qualcuno sparisce e neanche ce ne accorgiamo. Altri invece portano via con sé interi pezzi di mondo e ci si ritrova smarriti, confusi e spaventati. A volte Marie pensava che se Henri avesse saputo quanto lei gli voleva bene, non avrebbe affrontato la morte con tanta leggerezza.
Pensava che se gli avesse detto che lo considerava alla stregua di un padre, lui sarebbe vissuto.
Ma dopo tanti anni al suo fianco, era naturale che rispettasse la sua scelta.
Stanco di vivere nella paura, aveva fatto un gesto estremo: se fosse stato forte abbastanza da sopravvivere, l'acqua non avrebbe più tormentato i suoi incubi. Se, al contrario, avesse ceduto alla paura, sarebbe stata l'ultimo atto di debolezza della sua vita.

Una sera, dopo l'ennesima giornata di provini andati male, Donna Banù si infuriò.
L'incasso della giornata era stato ridicolo.
«L'assistente di un mago, senza mago! Perché mai dovrei continuare a sfamare la bocca di una nullafacente? Credi che questo circo sia un'impresa di beneficienza?!».
Marie fu cacciata fuori dalla baracca a suon di strepiti e urla e corse a rannicchiarsi dietro un barile di sidro per singhiozzare.
Ad un tratto udì dei passi. Si affrettò a asciugarsi le lacrime e alzò lo sguardo: qualcuno si sporgeva oltre il barile, oscurando con la sua ombra la luce della luna.
Quando riconobbe quel volto, Marie cacciò un grido soffocato: non poteva crederci.
Di fronte a lei c'era... sé stessa.
Era una sé stessa mai vista: indossava un frac e portava i capelli sciolti sulle spalle. Sorrideva.
Sulla testa calcava un cappello a cilindro stretto e lungo, con la tesa consumata.
Disse: «Sento che nelle tue vene scorre la magia».
Poi adagiò il cappello sulla testa dell'altra Marie, quella rannicchiata dietro al barile di sidro, si inchinò e scomparve.

Il giorno dopo Donna Banù fu svegliata da uno schiamazzo concitato. Indossò la vestaglia leopardata, le pantofole di scoiattolo e si precipitò fuori dalla baracca.
Un manipolo di curiosi si era radunato sotto all'annuncio per la posizione vacante da mago, che Marie stava pian piano staccando.
«Ah, brava, finalmente hai trovato un sostituto», si complimentò l'anziana padrona del circo.
«Vedrà, Donna Banù, rimarrà a bocca aperta!».

Quella sera gli spettatori radunati per lo spettacolo di prestigio non si contavano. I posti a sedere erano stati esauriti e ogni spazio vuoto sotto il tendone era gremito dalla folla.
Tutti morivano dalla voglia di sapere chi avrebbe rimpiazzato il grande Henri Lierre.
"Vedrete che non sarà all'altezza!".
"Il maestro era insuperabile...".
Le luci si abbassarono e tutti tacquero.
Sul palco comparve un'esile figura in frac: portava un cappello a cilindro e aveva lunghi capelli dorati.
Era una donna.
Dal pubblico si sollevò un grido di stupore.
«Prima che questo spettacolo inizi, occorre che l'altro finisca. Lasciatemi omaggiare il maestro dell'illusione Henri Lierre con il numero che lui non è mai riuscito a terminare», esclamò Marie, posando il cilindro a terra.
La vasca colma d'acqua fu portata al centro del palco. La giovane salì una scaletta e si fece incatenare mani e piedi, dopodiché si tuffò.
Il pubblico, che fino ad allora aveva vociato, si fece all'improvviso muto: tutti rimasero con gli occhi incollati alla vasca; in tutto il tendone si percepiva la tensione mentre Marie si dibatteva per liberarsi dalle catene.
Furono attimi di puro terrore, in cui nessuno osò battere ciglio.
Poi, infine, le catene precipitarono in fondo alla vasca e la ragazza riemerse dall'acqua, tossendo.
A quel punto tutto il pubblico saltò in piedi e iniziò a battere le mani esultante e a gridare, come impazzito.
Donna Banù, che per tutto il numero si era premuta il binocolo contro gli occhi, immobile come una statua di sale, lanciò via il bastone e, con rinnovato vigore, montò in piedi sulla poltroncina e improvvisò una danza del ventre.
Il resto dello spettacolo fu epicità pura.
Marie seppe intrattenere gli spettatori dal primo all'ultimo istante, facendo magie così stupefacenti da risultare incredibili. Fece spuntare arcobaleni da bicchieri d'acqua, accese e spense roghi con un gesto delle dita, trasformò gli uomini in animali e gli animali in uomini, creò cento copie identiche di sé stessa e poi cento tutte diverse e alla fine volò, perfino.
Mai il pubblico era andato così in delirio per uno spettacolo di prestigio.
Da quel giorno il nome di Marie fu conosciuto in tutta Europa e oltreoceano: ad ogni spettacolo i biglietti si esaurivano in meno di un'ora e tutti i critici del mondo giuravano che non era mai esistito al mondo un mago più bravo di lei.
Un giorno, dopo molti anni, mentre passeggiava per il porto di Lione, Marie rincontrò sua madre.
La figlia indossava abiti pregiati e fioriva di bellezza, mentre la madre era vecchia e sdentata, magra e coperta di stracci.
Guardandola, Marie sentì il bisogno di correre da lei e ringraziarla per averla venduta al circo di Donna Banù per un pugno di farina.
Sua madre però non la riconobbe; si limitò a tendere la mano avvizzita e biascicò un: «Fate la carità».
Marie, con gli occhi pieni di lacrime, le lasciò cadere sul palmo grinzoso una manciata di monete d'argento.


3 ago 2017

« Buio e Luce »

« Buio e Luce »
«Per un attimo di sole
daresti indietro le tue lune.
Se avessi un cuore che fa male
lo scambieresti con uno che tace.
Puoi restare qui con me
ci cureremo insieme da ogni nostro male.
Puoi capire qui con me
cos'è che fa paura
più della solitudine.»
- “Non ti lascerò cadere mai”, La Fame di Camilla


La Fabbricante di Sogni amava il sole da lontano, in silenzio.
Lo amava attraverso i drappeggi di una tenda e lo spiraglio di una porta; a volte provava a baciarne i raggi dorati che filtravano tra il fogliame fitto del bosco.
Ma il sole restava per lei qualcosa di inavvicinabile: lui la respingeva con spietata noncuranza, come un giovane principe viziato.
Le bruciava la pelle diafana e le accecava gli occhi chiari ogni volta che lei osava guardarlo.
La Fabbricante di Sogni soffriva ma non aveva mai smesso di amarlo neanche per un attimo, perché era come un fanciullo spensierato e pieno di vita.

Lei non era spensierata, infatti apparteneva alla notte: l’oscurità la accoglieva con dolcezza, scavandole un’alcova con i drappi stellati del suo cielo.
Il buio e le sue sfumature la facevano sentire al sicuro, l’assenza di ombre la rendeva leggera.
Era così facile scordarsi il dolore della pelle che bruciava al sole, la notte.
La solitudine invece, quella era impossibile dimenticarsela.

C’è chi sosteneva di aver visto spesso la Fabbricante di Sogni sedersi sul tetto della torre meteorologica, oppure appollaiata sul ramo più alto di un albero o distesa in riva a un ruscello con in mano una lunga canna.
«Va a pesca di lune», dicevano.
Pareva si fosse costruita un grande armadio in cui contenere la sua preziosa collezione, ma non la mostrava mai ai clienti che venivano a trovarla.
Quando glielo chiedevano, si limitava a sfoderare un sorriso cortese e a chiudere l'armadio a doppia mandata.
«Sei gelosa delle tue lune», aveva detto una volta un cliente venuto a ritirare un sogno su misura per lui. La Fabbricante di Sogni gli si era avvicinata con dolcezza, sotto le lenzuola, gli aveva sfiorato il petto con le dita bianche e aveva risposto: «No. Solo che ognuno di noi vede la luna in modo diverso: essa è lo specchio della nostra anima. Non mi sento pronta a mostrare a qualcuno la notte attraverso i miei occhi».
Poi gli aveva baciato silenziosamente le labbra.

Una volta, mentre passeggiava in strada alla ricerca di se stessa, la Fabbricante di Sogni incontrò un altro pescatore di lune: era la prima volta che ciò accadeva.
Lui teneva ferma con l’incavo del braccio una canna da pesca simile a quella che lei si era dimenticata a casa ; le mani sottili erano intente a rollare una sigaretta.
Portava una corona di gelsomini intrecciata fra i capelli e la sua pelle fragile come ali di falena rifletteva il pallore delle stelle.
Doveva soffrire di quel tipo di malattia che costringe la gente a cercare sollievo dal dolore fra i tentacoli di una sofferenza ancor più grande.
Quando si accorse che la Fabbricante di Sogni lo fissava, le sorrise: era un sorriso divertito e malinconico insieme.
La lenza iniziò a tirare e allora lui si affrettò a posarsi la sigaretta fra le labbra e a girare il mulinello.
La Fabbricante di Sogni guardò con le lacrime agli la piccola luna opalescente agganciata all’amo fluttuare sempre più vicina, finché il Ragazzo di Gelsomino non la afferrò fra le mani.
Era rotonda, luminosa e bellissima.
Gli rischiarava la metà superiore del corpo facendo scintillare i fiori tra i suoi capelli come perle rare; lui la guardava con uno sguardo innamorato e rassegnato insieme.
Anche la Fabbricante di Sogni aveva una luna simile, nel suo armadio… no, che diceva, ne aveva almeno cento.
«Collezioni molte lune?», gli chiese.
Il ragazzo rispose: «Forse», ma intendeva “tantissime”: non era da escludere che ne possedesse anche più di lei.
La Fabbricante di Sogni non fece in tempo a dirgli “guarda quanto siamo simili”, che il Ragazzo di Gelsomino si era già affrettato a nascondere la luna nello zaino, con aria contrariata: non avrebbe dovuto mostrargliela. Ora lei conosceva il mistero della notte attraverso i suoi occhi e avrebbe potuto ferirlo facilmente.
Ma la Fabbricante di Sogni non voleva fargli del male: voleva solo che sapesse quanto erano simili.


Passarono molti mesi, mesi in cui il Ragazzo di Gelsomino si rifiutò di guardare la collezione di lune che la Fabbricante di Sogni custodiva tanto gelosamente dalla vista altrui. Se solo avesse dato un’occhiata avrebbe capito… ma non volle mai farlo.
Quel gesto era ciò che di più prezioso lei avesse da offrirgli ma lui la trattò con freddezza e totale assenza di interesse, anzi a volte rise addirittura di lei.
E così anche il meraviglioso contenuto di quell’armadio diventò un pesante fardello di cui la Fabbricante di Sogni desiderò liberarsi.
Basta buio! Voleva essere abbagliata da una luce abbastanza forte da disintegrarla all'istante nell’etere.

Scrisse spesso sogni in cui le ante di legno dell'armadio si aprivano e tutte le sue lune volavano via fluttuando leggere come uno sciame di lucciole.
Poi, invece di infilare quei bigliettini nel Barattolo come suo solito, se li intrecciava fra i riccioli color rame.
Quando i clienti se ne andavano e restava da sola, spalancava l’armadio e si sedeva sul pavimento a osservare la fila ordinata di lune iridescenti che negli anni aveva pescato, pensando a quanto la loro vista le facesse male poiché la costringeva a rievocare, uno dopo l’altro, tutti i sentimenti tristi con cui le aveva agganciate al suo amo d’argento.
Era insopportabile guardarle da sola.
Fu allora che realizzò che non voleva affatto mostrarle al Ragazzo di Gelsomino per aiutarlo; era lei quella che non riusciva più ad andare avanti, rinchiusa nel silenzio della sua torre.
Lei, la Fabbricante di Sogni, lei era quella troppo sola per continuare a vivere.
In quel momento sorse l’alba e dalle assi di legno che sbarravano le finestre filtrarono i raggi rosati del sole.
La Fabbricante di Sogni richiuse a chiave l’armadio e sospirò.
Un giorno, quando avesse sentito di non farcela più, avrebbe schiodato tutte le assi lasciando che la luce del giorno entrasse e cancellasse  in un attimo lei e tutte le sue preziose lune.
Ma per adesso voleva ancora illudersi che, prima o poi, il Ragazzo di Gelsomino avrebbe accettato di sedersi lì con lei, su quel pavimento freddo, a osservare il mondo attraverso i suoi occhi e a meravigliarsi di quanto fosse simile a quello che vedeva lui.
E allora, forse, entrambi avrebbero capito che non dovevano più avere paura della loro solitudine, che incontrarsi sotto quel tetto di stelle era stata una ricompensa del Destino e che il buio e la luce erano  figli dello stesso sole.




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