28 ago 2015

"Mandarini" di Akutagawa Ryunosuke

Come avrete notato dal sottotitolo del blog ("studi e traduzioni"), nel tempo libero mi dedico anche a studiare la cultura e la letteratura giapponese e di tanto in tanto traduco qualcosa.

Non so se siete a conoscenza del mio incondizionato amore per Akutagawa Ryunosuke.
Sì, lo adoro. Ho letto quasi tutto quello che era stato tradotto in italiano, e l'ho persino incluso nella mia tesina di maturità.



"Akutagawa è considerato uno dei più grandi scrittori del Giappone moderno, e il più emblematico dell’Era Taishō in quanto il periodo della sua produzione letteraria coincide con i 14 anni del regno e rispecchia in gran parte il disagio e la confusione di una società strappata dalle proprie radici e gettata in pasto all’industrializzazione nel giro di mezzo secolo.

I principali lavori di Akutagawa sono novelle e racconti; alcuni sono originali, altri invece si ispirano a storie e favole della letteratura classica giapponese caricate di significati moderni. 
Essendo un modernista e un profondo innovatore della letteratura giapponese sperimenta stili diversi e tecniche differenti specialmente tramite i punti di vista di tanti personaggi.
L’opera più sperimentale è “Yabu no Naka (Dentro la foresta)” del 1922, dove ad un processo per l’omicidio di un samurai ogni testimone oculare (compreso lo spirito del defunto) danno una versione diversa dei fatti, dimostrando quanto la verità sia astratta e inafferrabile, e quanto l’essere umano sia capace di mentire. Consiglio a chi vi voi avesse tempo la visione del film “Rashōmon” diretto da Akira Kurosawa e ispirato a questa storia; il film è facilmente reperibile online sottotitolato in italiano in quanto non più soggetto a copyright.
Nelle sue opere Akutagawa affronta, oltre ai temi dell’egoismo e del valore dell’arte, una tematica che nessuno scrittore giapponese aveva mai analizzato: la bruttezza in contrapposizione alla bellezza. In un Paese che era sempre stato sensibile verso la bellezza fino ad arrivare al suo nocciolo essenziale, Akutagawa inverte la marcia; si può dire che si limiti a descrivere ciò che vede – ovvero un paesaggio straziato dalle fabbriche, dalle miniere e dalle ferrovie, masse operaie disperate, uomini senza più identità, nati dentro una società millenaria, morti impazziti in un mondo irriconoscibile.
Akutagawa stesso non riesce a capire se questo cambiamento sia stato negativo o positivo. Dentro di lui combattono due posizioni diametralmente opposte: una con la passione per la letteratura occidentale, le traduzioni, l’innovazione; l’altra invece soffre, osserva sparire una ad una tutte le cose belle e caratteristiche del suo Paese. La sua sensibilità alla bellezza viene urtata ogni giorno.
I suoi testi non sono denunce né critiche; sono il punto di vista di qualcuno intrappolato fra le onde del mare che non sa bene dove la corrente lo trascinerà – sicuramente lontano dalla spiaggia. Prende nota di tutto ciò che vede sentendosi stordito e non sa dire se davvero la vita fosse migliore prima del grande cambiamento.
La sua morte arriva alla fine di un’epoca emblematica, il tramonto di una civiltà secolare e del tutto unica; si può quasi dire che Akutagawa muoia insieme al Sole del Giappone."

Ma chi era, effettivamente, Akutagawa?

"Ryūnosuke Niihara nasce a Tokyo nel 1892.
Quando ha solo un anno, la madre già anziana impazzisce; viene dunque adottato dallo zio materno e cambia cognome in Akutagawa.
Gli zii sono discendenti di samurai e provvedono a crescere Ryūnosuke in un ambiente ricco di affetto e di stimoli intellettuali; fin da giovane si appassiona alla letteratura e alle opere di Natsume Sōseki.
Nel 1913 riesce ad accedere all’Università Imperiale di Tokyo, più precisamente nella facoltà di letteratura inglese; si appassiona alla letteratura europea (in particolare Maupassant e Dostoevskij).
Nel 1914 si occupa insieme a dei compagni di una rivista letteraria, dove inizierà a pubblicare traduzioni e propri lavori.
Trova l’ispirazione per scrivere a seguito di una delusione d’amore giovanile e realizza il suo lavoro più celebre, “Rashōmon” (1915).
Tra il 1915 e il 1916 si iscrive addirittura ad un circolo letterario dove incontra Natsume Sōseki. Sarà proprio quest’ultimo il primo ad apprezzare i lavori di Akutagawa.
Nel 1917 consegue la laurea e si trasferisce nella città marittima di Yokosuka dove per breve tempo insegna inglese nella Scuola di Ingegneria Navale. L’anno successivo sposa una donna di nome Fumi da cui avrà tre figli.

Il 1919 segna il successo di Akutagawa e la fine di tutti i suoi problemi economici; l’autore può ritornare a Tōkyō dove si dedica solo alla scrittura e al giornalismo.
E’ proprio per il suo giornale che nel 1922 si reca in Cina; il viaggio lo segnerà irrimediabilmente.
Per prima cede la salute; al suo ritorno Akutagawa dovrà affrontare infezioni intestinali che per anni non riesce a curare.
In seguito Akutagawa va incontro ad un progressivo degrado mentale; un suo amico viene dichiarato pazzo e l’ombra della madre naturale torna a rifarsi viva, accompagnata dalla paura incontrollabile dello scrittore, che teme di impazzire come lei. Tutto ciò è aggravato da un ambiente letterario che inizia ad orientarsi verso il sociale, togliendo all’autore anche la certezza di potersi mantenere da vivere scrivendo con il suo stile sperimentale.
Inizia ben presto a soffrire di esaurimenti nervosi ed allucinazioni. Scrive due romanzi autobiografici in questo periodo, entrambi molto tristi e angoscianti; uno in particolare, “Vita di un Folle” viene citato nella sua ultima lettera all’amico Masao Kume come l’analisi precisa e approfondita del suo stato d’animo; unico elemento non preso in considerazione è il fattore sociale.
Nella lettera Akutagawa scrive che, nonostante si trovi alla fine dell’era Taishō, sente che “l’ombra del feudalesimo continua a proiettarsi sulla sua vita” e che tutto ciò gli dà “un vago senso di inquietudine a proposito del suo futuro”.
Scrive all’amico di aver progettato il proprio suicidio nei minimi dettagli perché sia dignitoso e indolore, e aggiunge di non considerarlo un atto peccaminoso ma necessario. La paura della morte che lo rendeva umano lo ha abbandonato al punto che non riesce più a “godere neanche del cibo o delle donne”.
Nel 1927 si suicida ingerendo una dose massiccia di Veronal, un sedativo prescrittogli pochi giorni prima dal suo medico."

 (Biografia sintetica tratta dalla mia tesina di maturità)



"Mandarini" è un racconto breve che difficilmente troverete nella libreria sotto casa.
Fu tradotto in italiano nel dopoguerra e la raccolta in cui fu pubblicato non è più in stampa da anni - purtroppo! Conteneva i racconti più belli di Akutagawa, compreso "Rashomon" e "Il Paravento infernale"! - quindi ho deciso di cimentarmi per la prima volta nella traduzione di un testo letterario.


Il testo originale si trova qui --> Mikan - Akutagawa Ryunosuke

Il testo tradotto in italiano da me lo scaricate qui --> Mandarini - Akutagawa Ryunosuke
La password per scaricare il file è: petals_at_my_feet

27 ago 2015

Storie Brevi - Naoki all'ombra del cedro

Miyuki si era trasferita a Tokyo da quasi sei mesi.
C’è chi dopo una delusione d’amore si taglia i capelli, chi si dà alla pazza gioia ubriacandosi nei pub e chi semplicemente decide di cambiare aria – e Miyuki aveva deciso che Tokyo era lontana  quel tanto che bastava per dimenticarsi di Aoi.
Ogni angolo di Osaka, ogni suono per strada, ogni luce continuava a ricordarle che in qualche modo avevano vissuto qualcosa insieme, per quanto insignificante le apparisse ora tutta la loro storia.
Quando qualcuno le chiedeva ingenuamente il perché del suo trasloco, Miyuki sorrideva misteriosamente e diceva solo che “aveva bisogno di vedere nuovi posti”.
Non era una bugia: l’aveva realizzato nell’istante esatto in cui guardando fuori dal finestrino dello shinkansen i grattacieli grigi della città erano scivolati via come drappi di seta e il treno si era tuffato in mezzo al verde scuro dei monti.
Osaka era sì un’enorme città, una metropoli con quasi otto milioni di abitanti, ma Miyuki si era accorta di quanto in realtà le stesse stretta non appena l’aveva vista scorrere via tutta uguale, tutta perfettamente inquadrata in uno schema ripetitivo di alti edifici e strade asfaltate e cartelloni pubblicitari arrugginiti.
Tokyo era stata diversa fin da subito, non appena lo shinkansen vi si era gettato prepotentemente dentro e aveva iniziato a decelerare: via via che la velocità diminuiva era sempre più facile distinguere le sagome di edifici nuovi con gigantesche pareti a specchio che sotto il sole brillavano come diamanti.
Miyuki si era sorpresa di scorgere qua e là, tra uno di questi grattacieli e l’altro, condomini di ogni forma e colore (da quelli rivestiti di piastrelle rosse a quelli intonacati di verde), con scale che si attorcigliavano come edera intorno ai loro scheletri massicci, terrazze piene di panni stesi, tende di bambù e dietro le ombre degli edifici si intravedevano templi silenziosi immersi in fazzoletti di erba verde…
E ancora canali larghissimi e torbidi sormontati da ponti azzurri, a loro volta sormontati da ponti gialli – e tantissime scale d’emergenza che facevano capolino fra un’intercapedine e l’altra – e file di villette in stile liberty affacciate sulle sponde dei fiumi come in una cartolina da Venezia in un giorno nuvoloso.
E tutti quei gradini di metallo ancorati al cemento che sembrano spuntare dal nulla e conducevano a porticine e passaggi nascosti…. Miyuki aveva pensato con ammirazione che Tokyo sarebbe stata indubbiamente il labirinto ideale in cui ambientare una fiaba moderna.
Quando aveva iniziato a lavorare nel ristorante era piena estate e le strade esplodevano di colori e schiamazzi.
Il lavoro la teneva impegnata fino a tarda sera, ma in fondo le andava bene: doveva pur sempre guadagnarsi da vivere, e in fondo portare vassoi pieni di curry profumato non era male.
Il suo appartamentino dava su un cortile interno pieno di piante che non mancavano mai di essere annaffiate, sì che ogni mattina l’odore dolce dell’asfalto bagnato sotto il sole si mescolava ai profumi dei panni stesi tutt’intorno e saliva fino al suo balcone.
“Ho fatto proprio bene”, aveva pensato nelle domeniche pomeriggio libere che passava distesa sul tatami con la faccia illuminata dal sole e il ventaglio in mano, “il pensiero di Aoi non suscita in me la minima reazione”.

Ma la magia di Tokyo se n’era andata con l’arrivo del freddo – e la consapevolezza di Miyuki di essere perfettamente sola al mondo la sorprese di colpo una sera mentre, seduta sul tatami con una coperta di pile addosso, era improvvisamente scoppiata a piangere assaporando il riso caldo e profumato nella sua ciotola. E se ora avesse detto che le mancava Osaka, che figura ci avrebbe fatto? Lei che se n’era andata, lei che aveva riso come una gradassa dicendo “ah, che libertà Tokyo! Che magia!”, si ritrovava arrotolata come un verme in una coperta di pile in un appartamento minuscolo a piangere su una ciotola di riso.
Doveva darsi un contegno.
E così ogni posto, anche il più misterioso, finisce col perdere il suo fascino quando viene inghiottito dalla routine.
A dicembre Miyuki non cercava neanche più di farsi degli amici al lavoro, né tantomeno di uscire da sola per locali a farsene qualcuno.
Tokyo era diventata grigia, fredda e brulicante di uomini simili a formiche proprio come Osaka.
Il giardino sotto casa era spoglio e rinsecchito, la terra gelata, e la nonna del condominio che se ne occupava solitamente girellava fra vasi e innaffiatoi coperta dalla sua felpa pesante, fingendo di essere indaffarata.
Di tutti i gatti del quartiere, ce n’era uno nero dagli occhi furbi che si metteva all’angolo del marciapiede ad aspettare che uscisse di casa e che  poi la seguiva con lo sguardo ogni giorno fino al semaforo.
Miyuki a volte si era fermata ad accarezzarlo, sperando che instaurando con lui una sorta di rapporto, il gatto avrebbe smesso di fissarla con tanta insistenza; ma lui allora la guardava più intensamente e con lo sguardo di chi è pronto a sputare sentenze e Miyuki si allontanava sconvolta, convinta che in quel gatto albergasse lo spirito di un essere umano.
Si può dire che, nella sua grande solitudine, Miyuki trovasse comunque con chi scambiare quattro chiacchiere: c’era il titolare del ristorante, per esempio.
Il signor Nakamura era un tipo gioviale e simpatico, e non esitava a chiamare Miyuki quando aveva bisogno di un po’ di personale extra sapendo che la ragazza aveva costantemente bisogno di soldi.
Lo faceva ridere il tipico accento del Kansai che Miyuki proprio non riusciva a camuffare; dopo la chiusura del ristorante, mentre facevano le pulizie e i conteggi, sintonizzavano la radio del locale su una frequenza che trasmetteva solo musica enka e cantavano a squarciagola per far passare più velocemente il tempo.
E poi c’era Naoki.
Con lui in realtà non parlava molto.
Lavorava nel ristorante dirimpetto e si ritrovavano immancabilmente alla stessa ora a trascinare fuori i sacchi dell’immondizia.
Una volta Miyuki aveva provato a instaurare una conversazione.
«’Sera».
«…’sera».
«Che freddo, eh?».
«E’ inverno».
Col tempo anche lui però aveva dovuto abbandonare un po’ della sua freddezza, spiazzato dal tipico buonumore della gente di Osaka. Sì, forse aveva iniziato a trovarla simpatica.
In un certo senso Miyuki sperava di piacergli almeno un po’.
Naoki non era il suo tipo, troppo distaccato e taciturno, e non le ricordava neanche un po’ Aoi ma c’era qualcosa nel modo in cui comunicava più con gli occhi che a parole, che per un attimo aveva fatto riaffiorare dal lago dei ricordi di Miyuki lo spettacolo di Tokyo quando l’aveva guardata per la prima volta dai finestrini del treno: nel suo sguardo sembrava ingarbugliarsi lo stesso dedalo di strade, palazzi e passaggi misteriosi.
Ogni porta segreta era l’inizio di una storia diversa, una per ogni individuo che ascoltasse il ritmo misteriosamente vivo e magico di quella città.
“Cosa nascondi, Naoki-kun?”,si era sorpresa a pensare Miyuki con improvvisa curiosità, immaginando di puntare una lampada sul volto appuntito di Naoki per illuminare le profondità delle sue impenetrabili pupille.
Se c’era una cosa che Tokyo aveva sicuramente rivelato a Miyuki, oltre alla sua spiazzante solitudine, era stata un’insopportabile nostalgia per Osaka.
Si sarebbe sentita soffocare laggiù, eppure a volte la mancanza di casa era così forte da farle venire la nausea.
Quando al ristorante arrivavano dei clienti di Osaka si sentiva stringere lo stomaco in delle tenaglie; l’intera atmosfera cambiava.
Veniva risucchiata indietro in uno dei suoi ricordi, al doposcuola di anni e anni fa, con i calzini bianchi arrotolati fino al polpaccio e la gonna a pieghe, il fiocco blu della divisa scompigliato dalla brezza marina e il vecchio cartellone con la scritta “takoyaki” dipinta di nero e rosso fuori dalla bottega accanto alla stazione.
I genitori seduti ai tavoli che raccomandavano ai bambini di finire, con i loro modi un po’ sbrigativi e affettuosi, si trasformavano automaticamente nei suoi genitori; i bambini di Osaka poi, con il loro profumo frizzantino, erano capaci di dare all’intero locale l’aria un po’ asettica e ariosa dei family restaurant nelle domeniche di fine estate.
Era giunta alla conclusione che la gente di Osaka fosse capace di ricreare, ovunque andasse, l’atmosfera calda e accogliente di quando si sta in famiglia.
La sua nostalgia non si fermava a questo però.
L’aveva constatato con orrore un sabato, facendo la spesa al supermercato.
Quando era arrivata ad imbustare i suoi acquisti, si era ritrovata fra le mani una confezione di preparato per pancakes; il vuoto nel suo petto aveva iniziato a farle quasi male, male da farla piangere.
E allora via verso casa a testa bassa, per poi sprofondare nel futon senza neanche rimettere la spesa a posto.
Si era rannicchiata sotto le coperte calde e aveva dormito per non pensare – ma soprattutto per non sentire.
I pancakes a colazione erano il loro rito domenicale: una loro dolce abitudine.
Fuori dal supermercato, nella mente di Miyuki si era disegnata la schiena di Aoi.
Aoi con il pigiama color yuzu, il grembiule rosso legato in vita, intento a mescolare il composto dei pancakes.
Se Miyuki avesse iniziato a piangere, forse anche le lacrime avrebbero avuto il sapore dolciastro del caramello.
Il sonno era arrivato prima che altri ricordi di quella vita insieme potessero riaffiorare.
Amava Aoi così intensamente da sentire il suo vuoto dentro.
Bruciava di rabbia.
Lui avrebbe dovuto chiamarla, avrebbe dovuto chiederle come stava. Perché Aoi non aveva sentito per lei la stessa terribile mancanza?
Poi si mordeva le labbra.
“Io l’ho chiamato? L’ho cercato? Ho tentato di fermarlo quando mi ha lasciata?”.
La risposta era no. Creature bizzarre, gli esseri umani…
E ora che doveva farsene di tutta questa tristezza? Sarebbe dovuta tornare nella sua soffocante Osaka con la coda fra le gambe?
Da allora lo sguardo del gatto nero era diventato carico di commiserazione.
“Rinunci a tutto per dimenticare un ragazzo e poi scopri di esserne tuttora innamorata?”.
Miyuki avrebbe voluto sbattere quel gatto in una gabbia, in modo da non ritrovarlo mai più sul marciapiede sotto casa.
Ma non si arrendeva, avrebbe ritrovato quel sentimento scintillante di stupore e aspettativa che le era scivolato dentro non appena aveva visto Tokyo.
Valeva la pena resistere e lottare con le unghie e con i denti pur di provare di nuovo quella scarica di adrenalina – e stavolta non sarebbe rimasta con le mani in mano ad aspettare che l’effetto della magia svanisse.
No, stavolta era intenzionata a saltare dentro quella magia, a farsi trascinare, ad arrampicarsi fra i grattacieli, su per mille scalette contorte, e avrebbe spalancato la porta che Tokyo teneva in serbo per lei.
Miyuki era a Tokyo da quasi sei mesi.
Era febbraio e faceva freddo; il cielo però era limpido e pulito e prometteva che quell’anno la primavera sarebbe arrivata in anticipo.
Certo, in una città come quella, dove tutti corrono indaffarati dalla mattina alla sera, in pochi alzano lo sguardo oltre le cime dei grattacieli. Miyuki, che se lo poteva concedere, si era stretta nel cappotto e aveva sorriso.
Il cielo non mente, aveva pensato.
La primavera era proprio quel che ci voleva. Sentiva che sarebbe bastata a farla sentire un po’ meglio, un po’ più al posto giusto.
Anche se era sola.
Anche se Aoi le mancava e il suo lavoro non le permetteva un appartamento più grande.
Anche se ormai aveva quasi ventisei anni, e a ventisei anni senti in fondo in fondo che non puoi più permetterti di vivere così alla giornata.
Attraversando il parco che separava la strada di casa sua dal ristorante si era però fermata improvvisamente davanti ad una visione rivelatrice.
Qualcosa di rosso e caldo, piccolo come un bocciolo di ume aveva ricominciato a batterle in petto in modo così vivace e naturale, e Miyuki non era riuscita a credere che si fosse mai fermato.
Un cedro, alto e rigoglioso, distendeva i suoi rami di colore verde intenso verso le propaggini del mondo.
Sotto, seduto su una panchina, Naoki sfogliava le pagine di un libro con le lunghe dita sottili; in grembo un soffice gatto nero sonnecchiava dondolando la coda.
Fu forse a causa dei tenui raggi di sole che filtravano fra gli aghi del cedro, ma improvvisamente tutto le apparve stranamente chiaro.
Forse Naoki, apparentemente assorbito da quelle pagine con i neri capelli a coprirgli gli occhi, sapeva più cose di lei di quanto non desse a vedere.
Forse il gatto aveva fatto la spia e ora Naoki era a conoscenza di ogni cosa, persino di quando aveva pianto sulla ciotola di riso, persino di Aoi.
Nonostante ciò Miyuki non si era sentita violata in nessun modo, anzi.
Naoki aveva alzato gli occhi su di lei. Aveva sorriso divertito.
Lui sapeva… lui sapeva qual era la porta di Miyuki.
Ce l’aveva scritto negli occhi neri e furbi, nel dedalo di strade, palazzi e passaggi misteriosi che si ingarbugliavano dentro le sue impenetrabili pupille.

22 ago 2015

Pensieri in libertà dopo mesi di pausa.



Ultimamente sogno spesso di viaggiare.
Non faccio di quei sogni in cui però parto per andare a rilassarmi alle Maldive.
D’altronde, se fossi rilassata non sognerei neppure –raramente lo faccio.
Invece nell’ultimo mese mi sono svegliata spesso esausta, come se avessi rimuginato tutta la notte, e con un fastidioso peso sul petto.
Credo di capire cosa mi renda tanto preoccupata di viaggiare.
Quando ho ricominciato a scrivere è stato perché sentivo la necessità di metabolizzare.
Io in Giappone ho sofferto fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo minuto.
Ho sofferto fino a due minuti fa, e forse non ho ancora smesso.
Ma ogni istante di quella patetica sofferenza, persino quando sono arrivata a ficcarmi un dito in gola per provare a vomitare, o ho smontato la lama di un appunta lapis per poi ficcarmela nei palmi delle mani, persino in quei momenti sentivo che valeva la pena stare lì e fare quello che facevo.
Avevo un disperato bisogno di capire per cosa provassi tanta nostalgia.
Scrivere del Giappone mi ha liberata del peso di quella sensazione confusa e mi ha mostrato chiaramente una ad una tutte le cose che fanno del Giappone il posto più bello del mondo.
Ora però sono comunque divisa a metà fra la voglia di partire, di scappare, di ricominciare e la paura che sia solo un altro colpo di frusta.
Che tanto ovunque andrò sarò destinata a essere sola.
Nei miei sogni sono talmente ansiosa di partire che non poterlo fare è quasi doloroso.
Una volta il ricordo di mia madre che per tranquillizzarmi mi portò a comprare la valigia per andare in  Giappone si è fuso con una nuova fantasia del subconscio in cui sempre mia mamma stavolta andava a prendermi un depliant con i costi di tutti i voli.
Ma poi, una volta in procinto di partire, che fosse per aereo o in treno, verso la Corea o verso la Cina, tutto diventava improvvisamente inquietante.
Iniziavo a notare quelle discrepanze che ti rendono conscia di essere sola, intrappolata in un sogno; i posti non combaciavano, mi ritrovavo in compagnia di perfetti estranei, gente sconosciuta che si fingeva mia amica ma che finiva col rivelarsi una presenza negativa, biglietti importanti che andavano persi, borse che venivano rubate.
Il sogno più inquietante l’ho fatto pochi giorni  fa.
Mi trovavo in una campagna brulla al tramonto.
Camminavo fino a trovarmi dinnanzi a delle grandi rovine simili a quelle che si vedono in Nepal:quattro altri muri di mattoni di terracotta circondavano un prato dove la luce del sole al tramonto si poteva ammirare chiaramente.
Per entrare nel cortile si doveva attraversare un grande portale ad arco: persino nel sogno ho sentito il tepore dei raggi del sole sul viso, e la pace di chi si trova in un luogo talmente antico e magico da rappresentare probabilmente il centro del mondo.
E nel sogno i giorni passavano, e io mi recavo come sempre ad ammirare il tramonto fra le rovine finchè non iniziavo a notare uno strano particolare: ogni giorno la parte superiore del portale si riempiva di mattoni – si chiudeva sempre di più.
Una sera, al tramonto, avevo trovato il portale completamente murato attraversato solo da una sottile fessura – proprio come se fosse stato chiuso da anni.
Avevo sentito il sangue gelarsi e avevo realizzato di non sapere dove mi trovavo, di essere sola e di aver perso il cellulare. Dietro sulla strada sterrata iniziavano a passare dei contadini che mi scrutavano con sospetto.
Avevo percepito il pericolo.
Ma la cosa più brutta era sicuramente stata il senso di colpa nel sentire chiaramente che il portale si era chiuso perché avevo profanato le antiche rovine.
Trovo molto singolare che quest’ansia di viaggiare mi colga proprio in un periodo della mia vita in cui molti dei miei conoscenti è partito o sta per andarsene – mentre io sono bloccata a casa a lavorare.
Non fraintendetemi, mi piace lavorare: credo che gli esseri umani siano in qualche modo programmati per essere felici di mettere testa e mani in qualcosa che li renda soddisfatti e li faccia sentire utili al mondo.
Dico solo che a 19 anni mi è già venuta a mancare quell’ingenua fiducia nel mondo che fa decidere alla gente di lasciare tutto da un momento all’altro, partire e cambiare vita.
Forse perché in passato l’ho fatto, e so cosa si prova a rimanere delusi.
O forse perché partire e cambiare vita, girare il mondo, studiare all’estero sono tutte cose che necessitano di una certa tranquillità economica.
Lo so, è brutto ridurre sempre tutto ai soldi.
I miei amici forse non mi sopportano più (“come se noi non avessimo problemi economici”), ma non riesco a scrollarmi di dosso l’ansia che un giorno mi ritroverò completamente a secco con una famiglia da sfamare.
A volte non riesco ad addormentarmi; mi giro e mi rigiro nel letto immaginando i miei figli che un giorno mi odieranno se non potrò dare loro le opportunità che meritano perché non abbiamo abbastanza soldi.
Proprio non ce la faccio a decidere a cuor leggero.
Mi limito a guardare la gente che va e viene, gli amici in Giappone (mi manca il Giappone, sì), le foto dei conoscenti in Corea, in Grecia, in Madagascar… guardo gente che parte per l’anno studio all’estero con la stessa accorata nostalgia di una madre desiderando più coraggio.
E intanto resto qui, e mi stanco facendo miriadi di cose per non pensare – ma tutto esce inesorabilmente nei miei sogni a ricordarmi che sono un dannato essere umano e che non amo niente più della libertà e dell’assenza di vincoli.
Ma non si sa mai cosa ci riserba la vita, come diceva il grande Kobayashi Issa.
Eppure… eppure…

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