30 set 2016

Kinmokusei

Odore di kinmokusei.
Sbircio oltre l'enorme cancello di ferro battuto che dà sul giardino del convento ma non vedo traccia di fiori arancioni.
Tuttavia, il profumo continua a solleticarmi le narici. Tra la fronde rigogliose degli alberi e dei cespugli del giardino, scorgo la bianca statua del Cristo che osserva un punto imprecisato alle mie spalle con aria serafica; forse sto assistendo a un piccolo miracolo e Lui vuole che me ne accorga. Certo, un miracolo, dev'essere per forza così, altrimenti come si spiega questo profumo?
Mi appallottolo nella sensazione dolce di colei a cui, per un breve istante, viene concesso di tornare indietro nel tempo.
Era lo stesso periodo dell'anno di tre anni fa.
Non vedo in cosa i miei kinmokusei siano inferiori alle madelaine di Proust; il loro profumo inebriante e dolce si mescola al fetore tossico del tubo di scarico di un motorino.
Neanche quell'intrusione riesce a guastare la magia del momento.

Un mattino di fine settembre, proprio come la prima volta.
Allora era tutto diverso: il luogo era diverso, la lingua era diversa, io stessa ero diversa. L'unica cosa che è rimasta identica è il profumo dolce di kinmokusei nell'aria fresca e umida di un mattino di inizio autunno.

Mi domando se sia possibile che i kinmokusei profumino ancor prima di sbocciare. Come si presenta un bocciolo di kinmokusei? E io, sono forse il bocciolo di un tardivo fiore d'autunno?

Un uomo con un'evidente disabilità mentale mi supera, diretto nella direzione opposta alla mia:ha un'andatura oscillante e parla da solo in tono concitato.
Per un attimo mi assale il dubbio: e se fossi pazza anch'io? I pazzi magari non si rendono conto di esserlo. Se lo fossi si spiegherebbe anche il profumo di fiori che sento.
Sì, dev'essere tutto nella mia testa e per quanto ne so il mondo intero per come lo vedo è solo una creazione della mia fantasia.
Guardo per l'ultima volta la bianca statua del Cristo, oltre l'inferriata, poi mi avvio verso scuola lasciandomi alle spalle il dolce profumo di kinmokusei.

Mentre mi allontano, mi sorge spontanea una domanda: esiste forse qualcosa più soffice di un letto di fiori?


20 set 2016

Presagio di occhi e ragni di campagna - 6.8.2016

Com'è difficile entrare nel cuore delle persone.
Persino quando me lo porgono sul palmo di una mano, senza difese e con gli occhi che mi implorano "ascoltami, ti prego".
Perché allontano lo sguardo e fingo di non vedere niente, e parlo del più e del meno, del tempo che fa, della mia preferenza per la marmellata tsubu-an piuttosto che la koshi-an?
Non è colpa della paura del male che potrei farvi, prendendo quel cuore e maneggiandolo maldestramente. 
E' colpa della paura del male che farei a me, inerme davanti alle vostre schiaccianti verità.
E' il terrore egoistico di chi sa di non provare niente di profondo, di chi si rende conto di non aver mai imparato a fare l'essere umano.
"Bocca della verità".
In questo grande negozio della catena Tsutaya, nella campagna di Nagano, giro senza meta fra alti scaffali pieni di DVD a noleggio.
Fuori è già buio, e sotto la luce rossastra dei lampioni appaiono con chiarezza decine di panciuti ragni campagnoli.
Non ho intenzione di prendere un film, sto solo ammazzando il tempo mentre aspetto che il signore che mi ospita torni a prendere me e i coniugi inglesi che stanno cenando nel vicino "Kappa Sushi".
Questa passeggiata serale di inizio agosto fra gli scaffali di Tsutaya è così surreale da sembrarmi assurda.
Una settimana fa ero in Italia. Fra due settimane sarò di nuovo in Italia. 
Parentesi giapponese.
Ma se mi sento viva solo in Giappone, allora forse la vera parentesi è l'Italia. Tempo sprecato. Vita sprecata.
Ho vent'anni ma mi sento già sfiorita. 
"Bocca della verità".
Presagio di occhi brillanti del ragazzo del biberon che conoscerò solo fra qualche giorno.
La luce bianca dei neon di Tsutaya.
Ragni panciuti.
Il silenzio del vento fra le risaie. 
Forse ho sbagliato tutto. 
La parentesi non è né l'Italia, né il Giappone. La vita stessa è una breve parentesi fra due interminabili vuoti.

Uscendo fuori per ricongiungermi all'ospite e ai coniugi inglesi, mi sorprende la vastità della notte che in un attimo inghiottisce me, la mia inquietudine e le mie parentesi.
Resta solo il presagio degli occhi brillanti del ragazzo del biberon che conoscerò solo fra qualche giorno.


18 set 2016

Shiro-shoin - 18.8.2016

Al castello di Nijo, a Kyoto, sto osservando il murale degli appartamenti privati dello shogun e di sua moglie.
Shiro-shoin.
Qui i pittori della scuola Kano abbandonano lo stile sfarzoso e ostentato del resto del Ninomaru e dipingono un lago circondato dai monti e immerso nella nebbia - semplice inchiostro su carta color crema. Forse non era così ingiallita quando il murale fu dipinto, anzi, è possibile che all'epoca fosse addirittura dorata.
Per la prima volta delle figure umane fanno la loro comparsa nelle pitture di Nijo: sono così piccole da sembrare insetti dalle ali traslucide.
La sottigliezza delle pennellate conferisce al paesaggio una tremolante fragilità, come se la superficie del lago e i rami degli arbusti venissero sfiorati da una corrente d'aria fredda.
Per un breve istante, l'intera composizione mi appare come una finestra spalancata sullo Stige.

Vorrei dire di aver visto un dipinto più bello di questo, ma neanche nella mia Firenze sono rimasta tanto affascinata da un'opera d'arte.
La fila di visitatori scorre ma io rimango qui, immobile.
Shiro-shoin.
Sindrome di Stendhal.

La camera adiacente è la stanza della moglie; capisco per la prima volta fino in fondo l'etimologia della parola oku-san, moglie, ma letteralmente "signora dei recessi".Questa è la stanza più remota dell'intero castello, così appartata che la luce la raggiunge a malapena.
Nella mia mente si sovrappongono due immagini: la prima è la descrizione della casa giapponese tradizionale di Tanizaki in "Libro d'ombra"; l'altra è l'espressione del maestro Akutagawa, "come una cicala nell'oscurità".


Tutti i post: