1 ott 2015

Ravenfield (parte 1) - Margaret A. Ewitt mente

Cari lettori di petals at my feet, 
dopo vari disguidi, paragrafi ripetuti e parti di testo misteriosamente autocancellate (no scherzo, come minimo l'ho fatto io per sbaglio senza accorgermene), ecco finalmente la prima parte del mio racconto breve Ravenfield, e vi ricordo che se ancora non avete letto il prologo lo trovate qui!
Buona lettura a tutti e un bacio <3



Domenica 13 Settembre 1925, Ravenfield
Sono trascorse un paio di settimane da quando nella nostra residenza è arrivata la signorina Margaret A. Ewitt.
Sento il bisogno di parlarne nel mio diario poiché ho ragione di credere che la nostra convivenza con la signorina Ewitt non ci porterà a niente di buono.
I miei genitori la adorano, la servitù la rispetta e la piccola Elisabeth sembra alquanto attratta da le (forse per la sua intelligenza e bellezza già in giovane età) e temo che l’abbia oramai presa come un modello da seguire.
Perciò reputo che se esternassi i miei dubbi con qualcuno, nessuno sarebbe disposto a considerare neanche per un attimo le mie parole.
Annoto quindi di seguito tutte le mie perplessità riguardo alla signorina Ewitt e alla sua bizzarra condotta a Ravenfield.
Mi ero ormai convinto ad ignorare la sensazione che mi martellava in testa sin da quando l’avevo vista la prima volta sull’uscio della nostra casa, ovverosia che ella stesse recitando una parte a memoria e che fosse venuta con intenzioni ben differenti dal pr
estare serv
izio come tutrice.
Come ho già detto, ero disposto ad accantonare questo presentimento infondato fino a circa sei giorni fa, quando la signorina Ewitt è rientrata da Londra (la mia famiglia ha infatti concordato che lei faccia ritorno a casa dalla famiglia ogni fine settimana).
Si è presentata all’uscio di casa alla solita ora, verso il calar del sole, con in mano un pacco decisamente grande e squadrato fra le mani avvolto in della carta di giornale, quasi non volesse dare a vedere cosa fosse. Lì per lì ho pensato si trattasse un regalo, ma quando a cena si è presentata con in dono una scatola di cioccolatini di Hazel Bakery non più grande di un salvadanaio ho dovuto smentire la mia ipotesi.
Mia madre ovviamente è stata entusiasta: Hazel Bakery è una delle pasticcerie alla moda di Londra ed è quasi impossibile per dei signori di campagna entrare in possesso di quei cioccolatini.
Io, che sono un giovane educato, non ho mai neanche solo pensato di frugare senza il permesso fra gli oggetti della signorina Ewitt: era infatti del tutto probabile che in quel pacco non ci fossero stati altro che vestiti, scarpe o carta da lettere… cose di sua esclusiva proprietà insomma.
Ma avendo finito di cenare prima degli altri quella sera, devo ammettere di essere casualmente passato a bussare alla porta della sua stanza

prima che potesse farlo la nostra domestica Hannah per invitarla a mangiare il dessert (è un’abitudine di famiglia che la domenica sera ci riuniamo a mangiare il dessert con la servitù).
La signorina Ewitt ha fatto capolino dalla porta esibendo un sorriso fin troppo cordiale, ma io mi sono accorto subito che qualcosa non quadrava: aveva i capelli raccolti più stretti del solito, ma non per questo in ordine, anzi, la fronte era madida di sudore e all’altezza della vita la gonna era coperta da un ampio grembiule ingiallito. Deve essersi accorta del mio sguardo perché si è lentamente ritratta fino a lasciarsi intravedere solo dal collo su.
Mi ha chiesto di attendere gentilmente due minuti e si è richiusa dentro. E’ seguito un lungo momento di silenzio, uno di quei silenzi artificiali fatti apposta per nascondere le cose. Ho percepito difatti che al di là della porta la signorina Ewitt doveva essere intenta a rimettere via
tutto con prudenza e sveltezza.
Scrivo
tutto anche se non so assolutamente di cosa si tratti. Cose losche di sicuro.
La signorina Ewitt passa la maggior parte del suo tempo con mia sorella Elisabeth e questo non mi fa sentire a mio agio, per cui ammetto di intrufolarmi in biblioteca a volte per accertarmi che stiano davvero studiando: puntualmente Elisabeth sta leggendo ad alta voce qualche grande classico o si sta esercitando in francese.
Non riuscendo in ogni caso a togliermi l’inquietudine di domenica sera, ieri mattina ho deciso di macchiarmi di un grave crimine del tutto inappropriato per un giovane gentiluomo quale dovrei essere.
Sì, lo ammetto, approfittando della gita londinese della signorina Ewitt mi sono intrufolato di nascosto in camera sua – la stanza era apparentemente molto ordinata e confesso di sentirmi imbarazzato a frugare fra gli averi più intimi di una ragazza. Inoltre, non notando niente fuori posto non avrei saputo da dove cominciare a ispezionare, e volevo peraltro assicurarmi di non lasciare traccia della mia presenza.
Gironzolando nella stanza, col cuore in gola e pensieroso sul da farsi, l’occhio mi è caduto su uno strano oggetto che inizialmente mi era parso un vecchio calamaio in cui intingere la penna; confesso che non l’avrei neppure notato se non avessi visto spesso la signorina Ewitt usare una penna stilografica mentre studia con Elisabeth.
L’oggettino nero, via via che mi avvicinavo, assumeva sempre più le sembianze di un coniglietto di bronzo con due minuscoli occhi di madreperla. Confesso di aver pensato inizialmente che la nostra ospite fosse una feticista dei conigli: ne avevo già notati sulle sue calze, sui suoi quaderni e persino sulla costola di quello spesso diario che si portava sempre appresso.
Deciso dunque a cominciare la mia ricerca dalla libreria accanto al letto (i libri mi erano sembrati lì per lì le cose meno difficili da rimettere in ordine in quella stanza), mi sono voltato un’ultima volta verso il coniglio notando che per chissà quale gioco ottico, esso mi seguiva con lo sguardo. La mia inquietudine è aumentata. Per tutto il tempo in cui ho frugato fra le pagine dei libri della signorina Ewitt

senza trovare la minima prova della sua malafede
ho sentito quegli occhietti di madreperla puntati sulla schiena.
Questa sera la signorina Ewitt è rincasata  portando sotto braccio un vaso di rose blu. Mio padre e mia madre ne sono stati conquistati e l’hanno rimproverata affettuosamente per aver fatto tutta quella strada in aperta campagna con un vaso tanto pesante.
Io stesso ho trasferito il vaso nella serra accanto alle scuderie, e l’ho trovato pesante persino per un uomo giovane a attivo come me, che pur risparmiandosi le fatiche maggiori non nega mai un aiuto nei campi e nelle stalle. La stessa distanza dall’ingresso alla serra, che solitamente non mi impegna per più di due minuti, stasera me ne è costati almeno cinque a causa della pesantezza del vaso.
Come ha fatto la signorina Margaret A. Ewitt a presentarsi davanti al nostro portone alla solita ora del tramonto, non un minuto più tardi, senza il minimo accenno di fiatone?



«Mi permette di darle una mano?».
Crow Ravenfield, chino intento a recidere lo spesso gambo di una panciuta zucca gialla, nell’orto dietro la serra, aveva notato già da un po’ che Margaret A. Ewitt gironzolava nei paraggi. Aveva continuato imperterrito il suo lavoro fingendo di non averla vista, ma in realtà la teneva d’occhio.
Era un tardo pomeriggio di metà ottobre, l’aria iniziava a rinfrescarsi e il sole tramontava senza alcun fulgore facendo sprofondare il cielo pallido direttamente nel buio della notte.
Margaret si era aggirata fra le file dei fagioli, poi aveva seguito il perimetro delle patate senza fissare lo sguardo da nessuna parte, stando attenta che la sopraveste di lana color biscotto non si impigliasse fra gli arbusti, e poi infine glielo aveva chiesto.
Aveva ammesso di non essersi sentita del tutto a suo agio a rivolgere la parola al figlio del conte, per questo ci aveva messo tanto a decidersi.
Crow si era alzato lentamente, si era scosso la polvere dai pantaloni da lavoro e l’aveva guardata.
Crow aveva un modo strano di guardarla: dall’alto al basso, dal basso all’alto e poi si soffermava sulle mani coi guanti di pelle marrone, sulle caviglie, sui capelli, e solo infine sul volto. Non era lo sguardo attento di chi apprezzava ciò che vedeva, piuttosto quello sospettoso di un investigatore davanti a un indagato.
Il fatto che Crow fosse costantemente alla ricerca di qualcosa innervosiva Margaret A. Ewitt, che non poteva negare, però, di provare sempre una sorta di subbuglio, di agitazione eccitata, ogni qualvolta il giovane la fissava così intensamente.
D’altronde, anche lei aveva un modo tutto particolare di guardarlo: se si trovavano faccia a faccia non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso, come risucchiata da quella bellezza semplice e innocente. Ma appena lui si voltava allora iniziava a rubare con gli occhi i suoi lisci capelli neri sempre un po’ arruffati, la mani magre e graffiate dal lavoro all’aperto, le spalle larghe e sinuose. Il suo sguardo a volte osava perfino spingersi lungo la sua schiena e a scivolargli lungo i fianchi stretti.
Non esisteva a Londra un ragazzo così. Anche i giovani esponenti dell’alta borghesia si muovevano tutti con gesti artefatti, falsi, si strizzavano i abiti ridicoli, si lasciavano crescere baffi innaturali e parlavano come libri stampati. A Londra aveva spesso l’impressione che la cenere sporca delle fabbriche avesse insozzato anche i suoi interlocutori e che di solito non avesse davanti che una spessa, sporca patina di falsità.
In Crow Ravenfield c’era una vitalità inaspettata e un’onestà spiazzante.
«Non si preoccupi, non sono lavori da donne questi», le aveva infine risposto, dopo averla squadrata e osservata
minuziosamente.
Crow non le parlava mai in tono gentile, anzi era sempre piuttosto severo e sbrigativo.
Margaret aveva abbassato gli occhi annuendo.
«A quest’ora dovrebbe essere a prendere il tè con mia madre e Elisabeth», aveva osservato il ragazzo tornando chino sulla grande zucca bitorzoluta.
«Il dottore a Londra mi ha sconsigliato di bere tè per un po’… mi causa l’insonnia».
«Capisco… avrebbe potuto farsi offrire almeno un biscotto».
«Infatti ne ho mangiato uno, ma poi mi sono ricordata di aver visto alcune erbe aromatiche nell’orto e volevo chiederle il permesso di prenderne qualche rametto».
A questo punto il gambo della zucca era stato finalmente reciso e Crow si accingeva a farla rotolare sul largo telo di iuta che si era portato per il trasporto.
«A che le servono?», aveva domandato scrutando la signorina Ewitt sempre più sospettoso.
Margaret si era lasciata sfuggire una risata imbarazzata.
«Veramente servono ad Hannah per preparare la torta di zucca! Oggi è stata piuttosto occupata a confezionare la marmellata di mirtilli e non poteva passare dall’orto».
Suo malgrado Crow aveva lasciato che Margaret prendesse ciò di cui aveva bisogno mentre si caricava in spalla il pesante fagotto con la zucca. Ovviamente non le aveva tolto gli occhi di dosso; uno, due, tre… sei rametti in tutto di varie erbe.
I due si erano avviati insieme, in silenzio e lentamente verso le cucine.
«Vuole una mano con la zucca?».
«No», aveva tagliato corto Crow. I due erano ripiombati nel silenzio.
Margaret aveva avuto la netta, e per lei del tutto inusuale sensazione, che Crow la disprezzasse e questo l’aveva decisamente rattristata.
Nelle cucine avevano posato la zucca vicino alle altre verdure. Quanto ai rametti, l’indaffarata Hannah aveva chiesto di lasciarli sull’unico angolo del tavolo che non fosse sommerso di barattoli di marmellata blu scura.
I due giovani avevano salutato cordialmente la cuoca ed erano usciti nell’atrio della villa, ormai già illuminato dalle lampade rossastre.
Margaret aveva fatto per imboccare il corridoio verso camera sua ma Crow le aveva afferrato saldamente il polso esile e l’aveva strattonata per costringerla a voltarsi.
La ragazza si era trovata faccia a faccia con uno sguardo agghiacciante e severo, il volto bianco di Crow vicinissimo al suo era quello di un fantasma in cerca di vendetta.
«Tiri fuori i due rametti», le aveva intimato il ragazzo a bassa voce. Il suo respiro aveva accarezzato il collo di Margaret A. Ewitt che, malgrado tutto, proprio non riusciva a non guardare il figlio del conte negli occhi – quegli occhi grandi e verdi, simili a laghi di campagna.
«Signor Ravenfield, mi sta facendo male…», aveva gemuto tentando di liberare il polso da quella stretta, ma Crow non aveva battuto ciglio.
«Nell’orto ne ha presi ben sei, ma sul tavolo della cucina non ne ha posati che quattro. A cosa le servono gli altri due?».
«Di cosa sta parlando? Per favore mi lasci! Mi saranno caduti strada facendo… cosa vuole che me ne faccia di qualche erba aromatica!», aveva ribattuto Margaret sempre più a disagio, sempre guardando Crow Ravenfield dritto negli occhi.
«Sta mentendo, glielo leggo negli occhi… lei mente sempre, qualunque cosa faccia, io so per certo che confonde tutti in questa casa con una montagna di menzogne… si guardi alle spalle perché io la tengo d’occhio, signorina Ewitt».
Crow aveva sussurrato quel signorina Ewitt con una vena di gelida ironia, come se avesse dubitato di quella stessa affermazione. E effettivamente era così, Crow Ravenfield oramai dubitava persino che Margaret A. Ewitt fosse il suo vero nome.
Aveva allentato la presa sul suo polso e l’aveva guardata allontanarsi in tutta fretta verso la sua stanza senza staccarle di dosso il suo sguardo accusatore.



Sabato 24 Ottobre 1925, Ravenfield

Se dicessi, per preservare il mio orgoglio maschile, che la signorina Ewitt non mi fa paura peccherei gravemente di onestà davanti a me e davanti a Iddio.
Non ho inoltre intenzione di ritenermi un pusillanime che si fa mettere in soggezione da una giovane fanciulla indifesa, sia perché ho ragione di credere che la signorina Ewitt sia tutt’altro che indifesa, sia perché sono ormai entrato in possesso di prove che danno fondamento alle mia convinzione che Margaret A. Ewitt sia una bugiarda e una malvagia.
Purtroppo non sono prove che io possa presentare ai miei genitori per convincerli della malafede della signorina Ewitt, ma sono bastati per convincere me che le mie intuizioni sono sempre state giuste.
Sapevo che c’era qualcosa dietro l’apparentemente banale furto dei rametti di piante aromatiche di qualche tempo fa, infatti solo pochi giorni dopo Hannah ha accennato all’aver dovuto tritare a mano le spezie per la torta di zucca non trovando più il mortaio.
“Che strano, non lo muovo mai di lì, sto proprio invecchiando!”, ha detto per giustificarsi. Inutile dire che la sera stessa il mortaio risultava essere di nuovo al suo posto in cucina. Mia madre ha detto ad Hannah che non doveva abbattersi, che era normale ormai iniziare a perdere qualche colpo a quell’età. Io dal canto mio non ho mai dubitato che Hannah ci avesse in realtà visto giusto, perché mi ero improvvisamente ricordato di aver udito dei tonfi sospetti provenire dalla camera di Margaret durante l’ora del tè.
Lo stesso tè che afferma di non poter bere per via dell’insonnia, quando è palesemente una messinscena perché Margaret la notte non dorme comunque, con o senza tè.
Esatto, la signorina Ewitt

se davvero così si chiama
  sgattaiola fuori ogni sera verso mezzanotte, quando è certa che tutti dormano e si chiude talvolta in biblioteca, talaltra in veranda… Lo so perché la spio (per ora conosco i nascondigli di casa mia ancora meglio di lei). Sono alquanto deluso che non rubi mai apparentemente niente: esce di camera con in mano il suo diario – quell’inquietante libro con il coniglio inciso sulla costola – e rientra con in mano nient’altro che lo stesso diario. In ogni caso niente porta a pensare che lo aggiorni; innanzitutto, dov’è la sua penna? In mano non c’è, fra le pagine del diario nemmeno… la camicia da notte non ha tasche. Ho dunque pensato che si servisse più semplicemente di qualche penna che a volte lasciamo in giro per casa, ma tale ipotesi mi risulta difficile da credere perché da quando ho scoperto le sue scappatelle notturne ho preso l’abitudine di appuntarmi su un taccuino il livello di inchiostro di tutte le penne sparse per casa e... al mattino risulta esattamente identico!
E poi chi come me tiene un diario sa bene che non c’è posto più sicuro per aggiornarlo che in camera propria. Il fatto ancor più strano è che quando rientra in camera, la signorina Ewitt si trascina con passo esausto come dopo un grande sforzo.
Il sospetto è cresciuto in me sempre più, finché nella notte fra domenica e lunedì la signorina, portando in mano un piccolo pacchetto di carta velina al posto del solito diario non è sgattaiolata fuori senza neanche prendersi la briga di avvolgersi in uno scialle e si è catapultata silenziosamente in giardino. Io sono corso al piano superiore sperando di riuscire a vederla dalla grande finestra della biblioteca.
Credevo che il buio mi avrebbe impedito di distinguere qualsiasi cosa, e invece mi sono dovuto ricredere notando una vecchia lampada a olio rischiarare l’aia.
Con il cuore in gola ho realizzato che la lampada era in mano alla signora Goldencrown, una giovane vedova di guerra che vive da sola in un cottage a venti minuti da qui.
Conoscendola a malapena io stesso, non nascondo il mio stupore nel constatare non solo che lei e la signorina Ewitt si conoscessero, ma che fossero addirittura coinvolte negli stessi loschi affari!
Margaret ha scartato il pacchettino ed ha appuntato qualcosa nei lunghi capelli della giovane vedova Goldencrown; lei, in cambio, le ha lasciato cadere in mano un sacchettino di stoffa. Per via della lontananza e del buio non ho distinto altro, ma sono rimasto così sconvolto che quella notte non ho chiuso occhio.



«Le piace mio fratello?».
Margaret aveva alzato gli occhi dagli esercizi di Elisabeth, sorpresa. Le due  sedevano in biblioteca, al tavolo più vicino alla finestra. Fuori, i campi attorno a Ravenfield erano imbiancati di neve e il cielo grigio rimaneva immobile da ore.
«Cosa te lo fa pensare?», aveva domandato Margaret sbattendo gli occhi con aria confusa.
Elisabeth aveva spento le lampada elettrica da tavolo costringendo la giovane tutrice a chiudere il quaderno degli esercizi.
 «Lo guarda sempre quando crede che nessuno se ne accorga. Si fa improvvisamente attenta quando parla e sbircia dalla finestra ogni qualvolta egli esce nei campi a passeggio. Se lui le rivolge la parola si assicura in tutta fretta di avere i capelli in ordine e replica con voce più dolce del solito», aveva osservato Elisabeth con aria severa.
Doveva ammettere di essere molto gelosa di suo fratello, ma al tempo stesso si era affezionata a Margaret e vedeva in lei un modello da seguire: quale terribile delusione sarebbe stata per lei se quei due l’avessero trascurata per amarsi!
Margaret aveva sorriso e poi aveva accennato una risata.
«Oh, Elisabeth… sei proprio un’osservatrice attenta! Ma forse in questo caso hai letto troppi romanzi d’amore e ti sei lasciata suggestionare. Tuo fratello è un giovane pieno di grazia e di talento, ma io sono una professionista e sono qui per lavorare: non permetterei mai di lasciarmi distrarre da certe questioni».
Le due avevano abbandonato lo studio, si erano avvolte nei loro scialli ed erano andate a prendere il tè pomeridiano con la signora Ravenfield, come loro solito.
Mentre lasciavano la biblioteca però, Margaret aveva notato un’ombra fra gli scaffali e non aveva potuto evitare di arrossire.

 La signorina Ewitt andava a trovare la sua famiglia a Londra ogni fine settimana.
I Ravenfield sospettavano che fosse molto povera, perché Margaret si faceva pagare ogni venerdì sera e il lunedì rincasava a mani vuote (anche se portava sempre qualche piccolo regalo per la famiglia).Trattandosi di brevi visite se ne andava solo con una borsa capiente con un cambio di biancheria e il suo inseparabile diario. Per quanto si rifiutasse di accettare tanta gentilezza, generalmente il conte si offriva personalmente di accompagnarla alla stazione più vicina, e puntualmente la veniva a riprendere la domenica sera per riaccompagnarla a casa.
Fu una sera di gennaio, però, che Margaret aveva trovato Crow Ravenfield ad attenderla al binario.
Egli si offrì di trasportare per lei la pesante pila di libri che aveva portato in regalo da Londra.
«Stavolta non vi siete risparmiata, vedo».
«Vostra madre ha preso l’abitudine di darmi dei soldi in più sapendo che arrivo sempre con qualche piccolo dono, e mi sono detta che a tutti sarebbe piaciuto leggere qualcosa di nuovo».
«Capisco», aveva tagliato corto Crow.
Era inverno, ma il sole non era ancora del tutto tramontato quando i due giovani avevano imboccato il sentiero di campagna verso  Ravenfield, in un imbarazzato silenzio.
«Senta signor Ravenfield, quella volta in biblioteca…», aveva esordito Margaret A. Ewitt ad un tratto. Crow aveva distolto lo sguardo, guardando dritto di fronte a sé.
«Insomma», aveva proseguito Margaret imbarazzata, «quando sua sorella mi ha rivolto quelle insinuazioni piuttosto esplicite…», e qui non aveva avuto il coraggio di continuare.
«La scusi, non l’avrà sicuramente fatto in malafede. E’ semplicemente curiosa e sognatrice, come è del resto normale per delle ragazzine di quell’età», Crow aveva giustificato Elisabeth, impassibile.
«Assolutamente sì, e non ho mai pensato neanche solo un attimo di offendermi. Ma io sono divorata dal dubbio, per la verità fondato, che allora ella avesse ragione. Signor Ravenfield, io sono giovane e conduco una vita solitaria: non le sono del tutto indifferente. Lei è affascinante… oserei dire bello,  e sa farsi portare rispetto e ammirazione. Vorrei poterle parlare più liberamente e non limitare i nostri incontri ai pasti e alle occasioni formali.
«So che in passato posso averle dato ragione di credere di essere disonesta, ma negli ultimi tempi ho motivo di sperare che le cose fra noi si siano calmate».
Crow aveva ascoltato in silenzio la giovane senza smettere di camminare. Aveva fatto seguire alla sua dichiarazione un lungo silenzio in cui aveva riflettuto a lungo.
La signorina Ewitt stava dunque dichiarando un sorta di “simpatia” nei suoi confronti. Crow Ravenfield non aveva mai ricevuto una confessione del genere e ne era sinceramente imbarazzato; inoltre era vero quel che affermava la signorina Ewitt, da quasi due mesi oramai rigava dritto e non aveva più dato a Crow nessun motivo valido per dubitare di lei.
«Ѐ piuttosto audace a rivolgersi a me in questi termini. Non nascondo il mio imbarazzo… Tuttavia signorina Ewitt non si è ancora conquistata la mia fiducia e finché non sarò certo della sua totale onestà mi sarà difficile vederla come qualcosa di più della tutrice di mia sorella».
«Capisco perfettamente, mi scusi», aveva bisbigliato Margaret A. Ewitt abbassando lo sguardo.
“Non vorrà che la veda piangere”, si era detto Crow.

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