15 feb 2016

Anima di Natsume Soseki



Natsume Sōseki,il cui vero nome era Shinnosuke Natsume, è il più grande autore giapponese dell’Era Meiji e – secondo molti critici – anche della letteratura giapponese in generale.
Non mi dilungherei sulla suo biografia se non fosse così fondamentale per capire l’importanza di ciò che scrisse.
Sōseki nacque a Tokyo nel 1867, ovvero alla fine di quegli anni tumultuosi in cui l’Occidente forzò il Giappone ad aprire le sue frontiere all’invasione fisica e culturale dell’Ovest industrializzato. Quando aveva un anno, salì al trono l’imperatore Meiji e il fatto segnò per sempre il destino di un Paese unico nella Storia.
Non sono qui per criticare fatti già avvenuti e ormai irreversibili, e fondamentalmente inevitabili, prima o poi.
Credo che la Restaurazione Meiji in realtà fu uno degli avvenimenti più stimolanti che la cultura giapponese abbia mai subito, e Sōseki ne è la prova concreta.
La seconda metà dell’Ottocento in Giappone fu caratterizzata da quella che io amo banalmente definire una “messa in discussione”; naturalmente fu molto di più, la rivoluzione politica e culturale di quell’epoca ebbe l’impatto potente e inaspettato di cento terremoti. Ma quello che mi piace puntualizzare è la risolutezza con cui tutti, dagli alti funzionari dello Stato pronti a sedersi in un Parlamento sullo stampo di quello inglese, fino ai giovani pronti a buttarsi a capofitto nello studio delle arti e delle lingue importate dall’Occidente, misero in discussione la propria cultura per inseguire il sogno di un Paese moderno e competitivo a livello mondiale.

Non è un caso che molti degli autori più apprezzati e famosi dell’epoca si siano laureati alla facoltà di Letteratura Inglese di Tokyo – e fra questi oltre Sōseki, voglio ricordare il maestro Akutagawa.
Credo che la grandezza, lo spessore e la profondità di scrittori come loro sia da attribuire a questa precarietà fra il prima e il dopo, la tradizione e l’innovazione, il passato e le tradizione che fanno parte di ognuno di noi e che ci vengono strappati con forza da un’onda nuova, misteriosa, sconosciuta.
Per l’appunto, la loro abilità fu nell’intuizione di andare a cogliere in mezzo a questa confusione e a questo sgomento il “cuore delle cose”.
Sōseki non abbracciò totalmente l’Occidente (neanche dopo i tre difficili anni trascorsi a Londra), né si schierò dalla parte dei reazionari conservatori della tradizione. Lui – come ho già detto – mise in discussione. L’una e l’altra, il fuori e il dentro, il passato e il futuro. Il suo lavoro letterario a mio avviso è il raffinato prodotto di una continua valutazione, di un osservare attento e di un soppesare i pro e i contro derivati dalla collisione di due mondi completamente diversi.
È senza dubbio questo il motivo per cui dalle sue opere traspare una serenità che va oltre la superficiale rassegnazione alla vita. Certi passaggi, certe espressioni, suscitano quasi tenerezza per la spiazzante onestà con cui l’autore descrive il cambiamento, poiché al contrario di quanto potremmo aspettarci non è né totalmente positivo, né totalmente negativo. Le pagine dei libri di Sōseki riportano tutto il trambusto di una Rivoluzione da cento terremoti a una dimensione umana, offrendo l’unica chiave di lettura appropriata per quell’avvenimento – ossia lo sguardo di chi l’ha vissuto sulla propria pelle.

Anima” (il titolo originale, Kokoro, è stato spesso tradotto come “il cuore delle cose”) è a mio avviso un capolavoro senza tempo.
Scritto nel 1914, due anni dopo la morte dell’imperatore Meiji, racchiude fra le sue pagine l’essenza degli animi di chi visse allora. L’anima, il cuore delle cose di cui si parla, non si riferisce all’interiorità dei personaggi, quanto a un sentimento collettivo dove le vicende personali di tutti, se ridotte all’osso e scarnificate, sembrano recitare lo stesso messaggio.
Non so se per Sōseki fu più facile arrivare a scavare nella realtà dell’animo umano proprio per la particolarità dei tempi in cui visse, o se fosse semplicemente un genio; il fatto è che “Anima”, che quest’anno compie il suo centoduesimo anniversario, è un’opera capace di commuovere ancora.
Commuove perché il lettore, qualunque sia la sua nazionalità, la sua lingua, la sua astrazione sociale, chiunque sia insomma, sentirà di aver provato quegli stessi sentimenti che animano lo studente e il maestro.

La trama è relativamente semplice: un giovane studente universitario conosce un uomo durante una vacanza al mare. Non sa per quale motivo, ma inizia a provare verso di lui un forte rispetto venato anche dal desiderio di ricevere da lui una sorta di approvazione; così inizia a chiamarlo Maestro e diventa un assiduo frequentatore di casa sua.
Il Maestro è un uomo particolare: vive con la moglie e una cameriera in una modesta casa piena di libri, non lavora e vive in modo del tutto asociale. A volte pare infastidito dalla continua presenza dello studente, altre semplicemente indifferente. In ogni caso non lascia trapelare niente di sé e del suo passato se non per concedersi ogni tanto di pronunciare qualche frase criptica e un po’ cinica a cui però non segue mai una spiegazione. Egli afferma di essere felice con la moglie, ma i due sembrano come separati da un muro, incapaci di rivelarsi ciò che di più profondo pensano.
Il Maestro ha anche la strana abitudine di recarsi al cimitero di Zoshigaya, una volta al mese, a visitare la tomba di un amico misterioso.
Per lo studente la figura del Maestro e del padre malato si sovrappongono, quasi come facce della stessa medaglia. Entrambi incarnano una figura maschile di riferimento, ma i sentimenti del giovane sono contrastanti: se per il padre naturale, figlio di un contesto rurale e antiquato, prova quasi irritazione e si sente in colpa per non colmarlo di tutto l’affetto che si meriterebbe, verso il Maestro l’ammirazione, la curiosità e la ricerca dell’approvazione si fanno di giorno in giorno più forti.
Lo studente sente che gran parte di ciò che lo affascina del Maestro è il frutto del suo misterioso passato e lo prega di rivelarglielo.
Sarà solo attraverso una lunga lettera che il Maestro però si libererà del fardello del suo passato e rivelerà allo studente le ragioni per cui detesta il genere umano, vive senza il bisogno di lavorare, si reca ogni mese al cimitero e il motivo del suo strano rapporto con la moglie.

Secondo il mio modesto parere, c’è un campanello d’allarme che l’autore suona poco prima della conclusione del libro per avvertire il lettore della portata universale del suo messaggio.
Ad un certo punto della narrazione, l’imperatore Meiji muore.
La notizia viene diffusa in tutto il Paese e ben presto trapela anche nel villaggio rurale dove vivono i genitori dello studente; il padre, che fino ad allora aveva resistito con tutte le sue forze alla malattia, peggiora improvvisamente. Nello stesso momento a Tokyo, il Maestro si sente in uguale misura attratto verso la morte.
Ecco come le due figure paterne dello studente, che non si sono mai viste e conosciute e che appartengono a due mondi totalmente diversi per ambiente, livello di cultura e astrazione sociale, subiscono lo stesso duro colpo.
L’Anima di cui parla Sōseki è quella di una nazione in simbiosi, scossa dalle stesse ansie e dalla stessa meraviglia, unita verso il sogno dell’innovazione e della modernità e al tempo stesso smarrita e sola non appena vengono a mancare i pochi punti fermi che le sono rimasti dentro un mondo in continua evoluzione. Gli uomini dell’Era Meiji e Sōseki stesso erano fondamentalmente esseri umani spaventati che si facevano forza aggrappati a dei simboli – che fossero essi un imperatore, una bandiera, un inno.

L’Anima è quella cosa calda e molle racchiusa sotto decine di strati di gusci che batte dentro ognuno nello stesso modo: ecco perché la morte dell’imperatore segnò così profondamente il padre dello studente, il Maestro… ma anche Sōseki e milioni di suoi contemporanei.

Il fil rouge del libro, in sintesi, è un viaggio introspettivo dentro i cuori dei personaggi che a poco a poco si trasforma in un’esplorazione di noi stessi, come a ribadire che siamo tutti diversi, ma che in quanto esseri umani ci accomuna un’essenza e che non importa quanti gusci le costruiamo intorno: è lei a dettare le regole nel faticoso incedere dell’esistenza.

13 feb 2016

Alice - short of time pt. 1 (Racconto Breve)



14 aprile, 1935

Ieri una nostra giovane connazionale è scomparsa nel villaggio indiano di Samay-Shahar.
La fanciulla, che sosteneva di chiamarsi Margaret Ewitt, non è iscritta in nessun registro anagrafico e non risulta essersi imbarcata su nessuna nave diretta in India nell’ultimo anno. Mentre in Inghilterra le forze dell’ordine stanno lavorando per rintracciare la sua famiglia, le autorità indiane stanno indagando senza escludere nessuna pista.
Il villaggio di Samay-Shahar, che si trova a nord-est di Jaipur, è da decenni meta di giovani studenti borghesi per via del suo antico complesso di rovine, un tempo sede del più grande tempio indù della regione. La giovane scomparsa faceva parte di una comitiva di turisti europei che sono già stati interrogati dalla polizia di Jaipur .

Il trafiletto sulla copertina dell’Indian Times rimandava a pagina 4 per leggere l’intero articolo.
“Signor Winster, come puó ben notare la notizia si è rapidamente diffusa...”.
Thomas Winster, ventiquattro anni, una laurea in filosofie orientali, si aggiustó nervosamente gli occhiali sul naso dopo che, stando chino sul giornale, gli erano leggermente calati.
Il caldo umido e afoso, unito alla lampadina a incandescenza della sala interrogatori puntata in viso, lo avevano portato a sudare; sentiva la camicia di lino spiacevolmente appiccicata al torso, ma si era sentito troppo a disagio e non aveva osato togliersi la giacca.
Osservava il capitano Phradjar in ansia, chidendosi perché lo avesse fatto convocare a quell’ora della sera e dove volesse arrivare mostrandogli quell’articolo di giornale. Si domandava se il suo arricciarsi i baffi grigi con aria pensosa indicasse uno stato d’animo particolarmente turbato... C’era forse da preoccuparsi?
“Io non voglio insinuare niente, signor Winster, ma lei è stato l’ultimo ad aver visto la signorina Ewitt - ammeso che davvero si chiamasse cosí - e pertanto il nostro unico sospettato. Tutti i vostri compagni di viaggio inoltre hanno detto che eravate in rapporti relativamente buoni...”.
“Parlavamo ogni tanto, tutto qui”, lo interruppe Thomas Winster allentando il colletto della camicia ormai madido di sudore. Il ragazzo era troppo pavido e smidollato per opporsi fermamente alla pesante accusa che gli veniva rivolta e si limitó a ribattere all’insinuazione. Il capitano Phradjar non sembró neppure dargli peso,comunque.
“Mi racconti tutto quello che sa di Margaret Ewitt e poi mi ripeta per filo e per segno, senza tralasciare neanhe un particolare, que che è successo ieri mattina”.
Thomas Winster deglutí e congiunse le mani tremanti in grembo.
“D’accordo, le diró tutto. Ma lei deve promettermi che non mi prenderà per pazzo”.

13 aprile, 1935

Quel mattino la via principale di Samay-Shahar era trafficata come al solito. I mercanti di frutta si facevano aiutare dalle mogli abbigliate in sarii sgargianti e dai figlioletti a trascinare fino al mercato carretti straripanti di casse. Gli schiamazzi delle donne che sciacquavano i panni nel fiume giungevano vivaci da dietro la fila di tettoie di legno e foglie che fungevano da negozi - oltre che da abitazioni, alla bisogna.
Per strada, facendosi largo fra i carretti e i baracchini, un gruppo di sei o sette bambini arruffati e con i piedi sporchi di polvere rincorreva gridando una scimmia con le zampe strette attorno ad un casco di banane; sebbene si trattasse di una vera e propria caccia al ladro, i bambini sembravano divertirsi parecchio, quasi stessero giocando ad acchiappino. Agitando le braccia e i bastoni, schivando i mercanti, balzando sui muriccioli, levavano i loro gridi di battaglia piú per se stessi che per spaventare la scimmia. Poi furono inghiottiti dalla folla.
Due contadini camminavano umilmente dietro una giovenca bianca con le zampe sporche di fango e intonavano una cantilena: al loro passaggio le lavandaie, i mercanti e le loro mogli, persino le anziane donne chine a spazzare il ciglio della strada interrompevano per un attimo le loro faccende, si fermavano e si toccavano il centro della fronte con l’attaccatura del pollice un paio di volte.
“Signorina Ewitt, dove sta andando tutta sola?”.
Il signor Winster, che era un giovane borghese ben educato si preoccupó non appena notó la giovane Ewitt imboccare la porta della hall. Fuori dalla finestra, la strada appariva caotica e confusionaria e non era certamente il caso che una ragazza cosí giovane se ne andasse a spasso tutta sola in un villaggio straniero e barbaro nel cuore dell’India.
Il signor Winster era di temperamento equilibrato e raramente perdeva la pazienza, ma la noncuranza della signorina per il pericolo e la sua ingenua sprovvedutezza lo infastidirono.
Le andó incontro suo malgrado con fare amabile e tentó di dissuaderla. La giovane parve ascoltare il suo consiglio inclinando lievemente il capo. La tesa del capello di paglia bianco le adombró il viso pallido per un istante, il nastro di raso color senape le scivoló sullo spallino dello spolverino a fiori.
“Venga, i fratelli Holmes stanno leggendo ad alta voce nella sala da tè”, la invitò lui con un gesto della mano.
Il signor Winster si voltó convinto di essere seguito e si avvió verso le scale di legno; dopo cinque passi, insospettito dall’insolito silenzio della giovane, si voltó con l’intenzione di instaurare lui stesso una conversazione.
Ma la signorina Ewitt non c’era; la porta girevole della hall dell’hotel girava sonnacchiosa e al di lá delle vetrate, nella strada, fra i mercanti, i carretti, le donne in sarii e i bambini che giocavano a rincorrersi, non c’era traccia del suo spolverino a fiori, né tantomeno del suo cappello bianco.

La signorina Ewitt era stata fin dall’inizio una che amava fare di testa sua. All’inzio il signor Winster l’aveva trovata tremendamente irritante: si sa bene che le donne sono stupide e incoscienti e che la testardaggine le spinge solo a correre inutili rischi. Poi peró il signor Winster aveva rivalutato l’attitudine della signorina Ewitt; a volte gli era perfino parso che quella giovane, seppur debole come tutte le donne, fosse molto più capace di lui. L’irritazione era stata pian piano sostituita da un cupo senso di inferiorità; il fatto stesso di sentirsi cosí nei confronti di una donna era per il signor Winster causa di profondo imbarazzo.
Eppure, osservando la signorina Ewitt prendere con risolutezza decisioni dalla logica spiazzante o sentendole affermare cose particolarmente profonde e intelligenti senza la minima timidezza o esitazione, si sentiva pieno di una cieca ammirazione.
Da allora aveva iniziato a rivolgersi alla signorina Ewitt con un rispetto e andava oltre la semplice cavalleria.
Tutavia, intorno a lei permaneva un alone di mistero che, se da una parte la rendeva maliziosamente affascinante, dall’altra faceva quasi paura.
Una volta, ad esempio, il signor Winster si permise di chiederle l’età: dimostrava poco più di diciotto anni eppure si comportava con la compostezza di un’adulta
La signorina Ewitt aveva risposto con un sorriso malizioso : “Non tengo più il conto della mia età da almeno vent’anni”. Interpretando la risposta come una bizzarra battuta, il signor Winster aveva riso. Ma osservando lo sguardo profondo della signorina Ewitt e il suo sorriso affabile, la risata gli era morta sulle labbra. Il volto pallido e senza tempo di lei era stato percorso - anche se solo per un millesimo di secondo - da un ghigno divertito.

Il gruppo di studenti aveva percorso la costa e da una settimana si era addentrato nella regione di Jaipur intenzionato a godersi un'avventura nella giungla - certo, con la moderazione che si addiceva a dei giovani borghesi occidentali.
Quando la comitiva si riuniva, poco dopo i pasti, c’era sempre qualcuno che leggeva un libro ad alta voce o che intavolava conversazioni a sfondo filosofico. Si parlava anche d’attualità, talvolta, ma non molto di politica.
La signorina Ewitt in quei momenti sedeva con tutti, ma raramente apriva bocca. Distendeva il volto, ascoltava con attenzione con un sorriso misterioso ed era chiaro che pensava qualcosa che peró non aveva mai l’ardire di pronunciare ad alta voce.
Il signor Winster la osservava con la coda dell’occhio sperando di cogliere in lei una parvenza di umanità che peró non sembrava decidersi ad affiorare.
Nessuno comunque trovava sgradevole o bizzarra la sua presenza, e d’altro canto neanche il signor Winster all’inizio si era minimamente insospettito.Una sera, però, mentre si trovavano sul ponte di un battello che risaliva il fiume, aveva notato che la signorina Ewitt si era allontanata dal gruppo in silenzio. Non sapeva bene perché decise di seguirla – o meglio – lo sapeva, ma non l’avrebbe mai ammesso davanti al capitano Phradjar.
Aveva trovato la signorina voltata di spalle, appoggiata al parapetto del battello con il naso rivolto verso il cielo. La brezza del fiume le scompigliava i ciuffi ribelli scappati dallo chignon.
Fu una visione strana, una di quelle dove un particolare non torna.
Il signor Winster trattenne il fiato e si acquattò contro il muro delle cabine.Sì, c’era qualcosa di strano… i guanti – la signorina Ewitt non li portava. Era un fatto rarissimo se non unico… nella comitiva quasi nessuno aveva mai visto le sue mani. La signorina sosteneva di non togliere mai i guanti a causa di una grave ustione che da piccola le aveva deformato le dita, ma ora, a guardarle sotto la luce tremolante che filtrava attraverso gli oblò del ristorante di bordo, le mani della signorina Ewitt apparivano bianche e prive di imperfezioni.Tenevano un piccolo libro aperto più o meno a metà, ma la ragazza non accennava a chinare il capo per leggere. Che fosse un libro di preghiere?, si domandò ingenuamente il signor Winster.D’un tratto il vento si alzò, arruffando ancor di più i capelli della signorina Ewitt e increspandole il colletto di sangallo… stranamente né le pagine del libretto né l’orlo della sua gonna si mossero.Fu allora che il signor Winster giunse all’assurda, insensata conclusione che il vento doveva per forza venire dal libro.
Da quell’episodio in poi, il signor Winster rabbrividiva ogni volta che il suo sguardo si soffermava sui guanti della signorina Ewitt. Aveva scoperto, intravedendolo di tanto in tanto quando le apriva la sua borsetta di raso azzurro pallido, che il libretto misterioso era un taccuino con la copertina rigida e un coniglio d’argento raffigurato sulla costola.

Un'altra volta, durante un’uscita al mercato di Dharmakhar, la signorina si fermò sotto una tettoia di fogli di banano dove un’anziana donna dal volto rugoso praticava massaggi con olii profumati.
Il signor Winster si preoccupò che distaccandosi dalla comitiva le potesse succedere qualcosa e perciò la accompagnò.
La signorina Ewitt si sfilò le scarpe in segno di rispetto, salì sulla pedana di legno polverosa e salutò la vecchia congiungendo le mani.
L’anziana donna aveva alzato il volto dalla schiena del suo cliente e aveva corrugato le sopracciglia; i solchi sul suo volto erano centuplicati.
“Qui non serviamo stranieri”.
“Non importa, sono qui per un altro genere di servizio”, aveva risposto la signorina Ewitt, che si guardava intorno curiosa, come se l’affermazione della vecchia non l’avesse minimamente turbata.
“Non ti dirò quello che vuoi sapere”, aveva biascicato l’anziana in un inglese stentato.
“Ma io so pagare bene questo genere di informazioni”. Il tono della signorina Ewitt era diventato improvvisamente risoluto.
Il signor Winster era rimasto spiazzato dallo scambio di battute delle due. Il senso del discorso rimaneva del tutto oscuro, ma una cosa era evidente: le due sconosciute sapevano esattamente di cosa stavano parlando. Il giovane si sentì attanagliare lo stomaco dall’ansia e tornò a provare quel forte disagio di trovarsi davanti a un essere misterioso e inumano. Si chiese se forse sarebbe stato meglio che non l’avesse mai seguita. Eppure la signorina non pareva infastidita.
L’uomo disteso sulla pedana gemette; la massaggiatrice aveva premuto più forte del dovuto.
“D’accordo, ho capito. Stasera, lungo il Ruscello delle Virtù. Portane tre, non uno di meno”, aveva borbottato la vecchia senza più alzare lo sguardo.

 “Aspetti un attimo… quindi lei dice che la signorina Ewitt sembrava conoscere la vecchia massaggiatrice?”, domandò il capitano Phradjar buttandosi a sedere e grattandosi il capo confuso. La sala interrogatori era soffocante. Il signor Winster ormai era completamente fradicio di sudore, ma il racconto lo aveva entusiasmato e si era quasi dimenticato di bere il bicchiere d’acqua che gli era stato porto.

“Non ho detto questo. Anzi, sono piuttosto sicuro che le due non si conoscessero affatto. Dico solo che si sono intese al primo sguardo, come se… come se si leggessero nel pensiero!”.


“Ma non diciamo sciocchezze! Nessun essere umano è in grado di fare una cosa simile…”, aveva sbottato il capitano. Il signor Winster aveva gemuto e si era rannicchiato su se stesso, intimorito dall’accusa celata che gli aveva rivolto il poliziotto.


“Le sto dicendo la verità. Questo è ciò che ho visto e ciò che ho pensato in quel momento… E adesso mi lasci finire di raccontare”, balbettò lucidandosi le lenti degli occhiali con un angolo della camicia giacca sgualcita.


“Vede, capitano, io quella sera commisi un grosso errore a seguire la signorina Ewitt. Ma d’altronde, come potevo immaginare cosa sarebbe successo?”, farfugliò il giovane Winster passandosi nervosamente le mani fra i capelli. Lo sguardo inquieto assomigliava a quello di chi, dopo aver visto la morte in faccia, inizia a farsi tentare dalla follia.

2 feb 2016

Koto

Alla fine della mia permanenza in Giappone, decisi di ignorare gli impegni presi precedentemente con gli altri club e mi iscrissi alle lezioni di koto della scuola.
Non esistono parole per descrivere quanto io sia grata allo strumento che in un certo senso mi salvò dal periodo in assoluto più disperato della mia vita. Lo scoprii nel momento più giusto.
Non sono brava con gli strumenti musicali; per suonare serve pazienza, dedizione, senso del ritmo e mobilità nell’articolazione delle dita. Alle elementari ero la peggiore chitarrista della classe, alle medie quella con i voti più bassi nelle esercitazioni di pianoforte e in generale quando ballo ridono tutti.
Ero destinata a fallire anche con il koto, ma questo paradossalmente mi motivó: se suonavo partendo dll’idea che non avrei mai potuto raggiungere un buon risultato mi concentravo unicamente sulla sensazione dei polpastrelli contro le corde, sulle vibrazioni dell’aria e sul propagarsi del suono - insomma, suonavo unicamente per il piacere di farlo.
Il koto è lo strumento che fa il suono più bello, secondo me. Non è né una sfacciata chitarra, nè un lamentoso violino; anche paragonato al suono un po’ stridulo di altri strumenti a corda giapponesi come lo shamisen o il biwa, il koto risalta per la sua finezza.
La vibrazione delle corde ha un che di pulito e cristallino, fende l’aria come un elegante colpo di ventaglio per poi svanire timidamente, quasi ci avesse ripensato e volesse correre a nascondersi.
Questa caratteristica di vergognarsi della sua stessa bellezza fa del koto lo strumento più simile a un essere vivente che esista: in un pizzicamento di corda è condensato il presagio d’autunno che accompagna la vista degli alberi appena fioriti - il volo bruscamente interrotto degli uccelli e il ricordo nostalgico che una madre anziana conserva del figlio appena nato.
Ichiyo Higuchi scrisse nel suo celebre racconto “Koto no ne” che, udendo la melodia di un koto passando sotto una finestra aperta, un giovane delinquente si pentí della sua condotta e si commosse.
In effetti quello del koto è un suono un po’ triste, quello che ci ricorda che la felicità non è che una fase temporanea dell’esistenza. Ma proprio perché è cosí che ascoltarlo ci mette in condizione di accettare che certi avvenimenti ci piovano addosso, ci plasmino e ci segnino.
Il suono del koto ci pone di fronte all’unica verità, e cioè che la vita va presa come viene; suonandolo ho sopportato un sacco di cose.
Ho lasciato che le corde diventassero un’estensione di me e a volte che piangessero al posto mio.
La mattina ero solita prendere le chiavi dell’aula di musica tradizionale e lanciarmi giù per le scale, attraversare il giardino e catapultarmi a suonare prima delle lezioni.
Lei passava a prenderti proprio mentre io posavo la borsa in classe, e dalle vetrate vedevo tutto. Vi mettevate sulla panchina in giardino, mano nella mano, e io vi passavo davanti come se nulla fosse. A quell’ora il sole di maggio splendeva già alto e gli alberi del giardino erano già carichi di foglie verdi brillanti. Di quel tratto di cortile dalla scalinata all’edificio dell’aula di musica, ricordo solo il gesto meccanico di cercarvi con lo sguardo per accertarmi che foste lí e il chinare il capo per guardare le mie grandi scarpe nere calpestare l’erba giovane.
In quel periodo credo che non ci fosse una sola cosa che andava davvero bene; ero stanca di essere lontana da casa, sola senza aver stretto un solo vero legame; con la mia ultima madre ospitante stava inziando a andare sempre peggio, il mio peso era ormai drammaticamente sfuggito da sotto il mio controllo e tu - beh, tu sedevi con lei sulla panchina mano nella mano. Peró mi sentivo forte e invincibile come mai e all’epoca ero convinta che avrei potuto ottenere tutto ció che volevo. Insomma, io stavo affrontando tutto questo di petto, in un anno ero cresciuta, maturata e avevo imparato miliardi di cose e superato centinaia di difficoltá.
Sono stata una folle a pensare che questa forza e questo coraggio ormai non potessero più abbandonarmi. Oggi per esempio assomiglio a una grossa, brutta larva incapace di manifestare una qualsiasi forma di volontà. Pensare a domani (non al futuro, proprio a domani, 3 febbraio 2016) mi genera un forte senso di disagio e mi fa desiderare di sparire nel buio sotto le coperte.
Credo di non meritare di vivere, ma amo troppo la vita per farne ameno. Vorrei rinascere sottoforma di albero per non dover sopportare il rimorso di essere l’artefice di un destino patetico.
Se solo avessi un koto.
In questi momenti ripenso a quelle mattine di maggio in cui chiudendomi alle spalle le porte dell’aula di musica tradizionale e sedendomi davanti allo strumento, iniziavo a pizzicare le corde senza vergogna seguendo sempre il solito semplice spartito. Con lo sguardo al riparo dalla finestra l’immagine di voi due sulla panchina assumeva i contorni sfumati di un sogno, tanto che arrivavo a dubitare di averla mai davvero vista. Finché le corde vibravano, nessun dolore era abbastanza reale di fronte alla bellezza di quel suono.
Provavo una sensazione strana, quasi estatica, mentre le corde diventavano le maglie di un setaccio attraverso il quale goccia dopo goccia, ganello dopo granello, il mio spirito stanco di essere sballottato fra un sentimento e l’altro si liberava di tutto ció che lo appesantiva.
Starei meglio se oggi avessi un koto a cui affidare i miei sentimenti?

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