30 lug 2016

rosso sangue rosso fuoco

“Vorrei sapere se, dovunque ti trovi ora, sei felice”. Così recitava il biglietto che la fabbricante di sogni aveva inserito dentro una bottiglia di vetro blu.
Aveva più volte camminato fino agli scogli con l'intenzione di gettarla in mare, ma poi non ci era mai riuscita. Si ritrovava sempre  con il braccio alzato, il collo della bottiglia stretto fra le dita bianche. La schiuma delle onde che si infrangevano sulla scogliera si riflettevano nelle sue pupille nere.
Quante possibilità c'erano che il ragazzo lupo entrasse in possesso di quel biglietto? Zero, forse, o anche meno di zero. E se anche gli fosse arrivato, non le avrebbe mai risposto.
Una volta la fabbricante di sogni si sentì così patetica che si arrabbiò e scagliò la bottiglia di vetro blu per terra: le schegge le ferirono le mani bianche, che ora erano cosparse di venature di sangue rosso.
Inginocchiandosi a terra, la fabbricante di sogni prese il biglietto tra pollice e indice e se lo strinse al petto: il sangue macchiò i suoi vestiti. Alla rabbia subentrò la dilaniante, sconvolgente certezza di essere sola al mondo e quando iniziò a singhiozzare neanche lei avrebbe saputo dire se fosse per le ferite sulle mani o per quelle dentro il suo cuore.
La verità è che certe cose non le si possono affidare né al mare, né al cielo, né tantomeno al Caso. Certe cose le si devono cercare da soli.
La fabbricante di sogni non ebbe mai il coraggio necessario per andare a cercare il ragazzo lupo. Chiusa nella sua torre coperta d'edera, passava le giornate ad appuntare matite.

Un giorno d'estate qualcuno bussò alla sua porta per chiederle un sogno.
“Che tipo di sogno?”
“Che ne so, li fabbrica lei!”
“Bene, se le va bene tutto peschi uno già fatto”, rispose lei allungando al cliente un grosso barattolo di latta.
Il Barattolo era dove la fabbricante di sogni custodiva le idee che le erano venute spontaneamente senza che nessuno gliele avesse commissionate.
Mentre serviva tè e biscotti al suo cliente, i due parlarono del suo lavoro.
“Certo che dev'essere dura, stare sempre qui da sola”.
“Non desidero la compagnia di nessuno”, aveva mentito lei.
Molti anni dopo, però, ricevette una lettera da quella stessa persona; la busta conteneva due fogli.
Il primo era una nota scritta da quel vecchio cliente:
La vita a volte ci porta via la capacità di sognare di essere felici. Lei ha perso questa facoltà da un bel po', e allora regala tutti i sogni migliori agli altri. A me ne regalò uno preziosissimo, che oggi posso dire di aver realizzato al posto suo: questo mi rallegra e mi rattrista al tempo stesso. L'ho trovato, il ragazzo lupo. Sta bene, è alla ricerca di qualcosa di importante in un paese lontano. Quando questa lettera le sarà recapitata, lui probabilmente sarà già ai confini del mondo. Io, dunque, le dono lo stesso sogno sicuro che ne abbia molto più bisogno di me.
L'altro foglio, tutto stropicciato, era lo stesso che anni prima la persona aveva pescato dal Barattolo.
La lettera era datata due primavere fa. La fabbricante di sogni prese tutto e lo gettò nel fuoco.


28 lug 2016

A casa

La prima cosa che mi colpì appena tornata in Italia, fu l'odore tipico delle sere d'estate che mi investì appena uscii dall'aeroporto. Era un odore umido e pungente di cui le mie estati erano impregnate. Era un odore di casa.
Quasi non mi accorsi di mio padre che mi prendeva la valigia di mano; rimasi per qualche istante sopraffatta dalla nostalgia per un passato felice e indefinito che in quel momento realizzai non sarebbe mai tornato.
Il Giappone mi aveva sfiancata, mi aveva ridotta in brandelli dentro e fuori.
Se qualcuno mi avesse chiesto quella sera: “come stai?”, probabilmente avrei risposto “stanca”.
Stanca era riduttivo.

Eppure il Giappone mi è mancato ogni singolo giorno, in questi due anni. Mi è mancato così tanto... Mai – neanche per una volta – sono riuscita a detestare quel posto per come mi aveva trasformata, ferita, messa alla prova: mi aveva fatto crescere.

Negli ultimi tre anni ho ridefinito il mio concetto di “casa”.
Da “luogo in cui vivo” a “dove mi sento al mio posto nel mondo” - adesso per me “casa” è piuttosto un insieme di ricordi.
“Tornare a casa” è tornare fisicamente in luoghi che, per un motivo o per un altro, per me hanno significato qualcosa di importante – il vano tentativo di rivivere quelle esperienze che mi hanno fatto sentire viva.
Il Giappone è il luogo che meglio incarna questa definizione.

Da quando sono tornata – erano ormai due estati fa – ho cercato di colmare la distanza in vari modi: scrivendo, leggendo libri, studiando, ricreando nella mia stanza un piccolo angolo di Giappone. Tutto questo è patetico dal mio punto di vista, in quanto espressione di un disagio esistenziale tipico delle persone sociopatiche come me; tutti però lo scambiano per “passione” quindi suppongo che vada tutto bene.

Tra pochi giorni torno a casa e al pensiero sono così felice e incredula che quasi mi viene da piangere. Sono sicura che, uscendo dall'areoporto, la misteriosa esperienza della scorsa volta si ripeterà. Come cresciamo in fretta; tre anni fa una me completamente diversa metteva baldanzosamente piede fuori dalla stessa uscita.
Oggi non ho più neanche un briciolo di quella fiducia: non sono certa che il futuro mi riservi qualcosa di buono. Però sarò a casa.

In due anni di lontananza ho realizzato che il Giappone, paradossalmente, mi è mancato molto più dell'Italia e che a volte la nostalgia mi ha impedito di sorridere o sentirmi a mio agio per giorni; ho anche avuto il tempo per riflettere su molte cose, e adesso certe ferite non fanno più male.

Torno a casa per cercare di curare le altre ferite, quelle che non si sono mai rimarginate. Con un'exchange student di nome Alexia una volta ragionammo sul potere che ha il Giappone di curare l'anima delle persone: ha un modo tutto suo di farlo.
Prima ti prende e ti fa salire sul tetto del mondo: te lo fa assaporare bene, ti fa sperimentare una gioia genuina, una magia irriproducibile. Poi ti spinge giù. Esatto, ti lancia di sotto, ti fa fare un volo di centinaia di metri, ti pone davanti ogni tipo di ostacoli e, quando finalmente atterri, ti sorprendi di essere ancora vivo.
E ti rialzi, barcollante e malconcio, disperato, però ti rialzi. “Che strano modo di curare è mai questo?”, vi chiederete.
Io vi rispondo che è un modo efficacie. Vi accorgerete, quando avrete le ossa rotte e i sentimenti a pezzi, di tutta la forza che vi si nascondeva dentro. Capirete quali parti di voi non vi servono e quali invece rafforzare sul lungo cammino per risalire – da soli – sul tetto del mondo. La “cura” non è raggiungere l'obiettivo, ma rendersi conto ogni giorno di essere sempre un po' meno sbagliati di ieri. Un po' meno soli, un po' meno deboli, un po' meno egoisti.
In Giappone, anche quando ero in preda allo sconforto, mi sentivo abbracciata da un'entità benevola e antica come il mondo. Era lei che mi aiutava a cercare dentro di me la forza di andare avanti. Per quanto fossi esausta, non ho mai perso l'entusiasmo di vivere.
Qui invece mi sento spenta dentro.
Non sono più sicura neppure di cosa penso e di cosa provo, so solo che tutto mi lascia indifferente e che non riesco a prendere delle vere decisioni e che l'unico posto in cui tutto questo grigiore può riacquistare un senso è proprio il Giappone. Sì, a casa.

Una parte di me mi grida che è un'illusione: che niente mi restituirà l'entusiasmo e le speranze della diciassettenne che tre anni fa scese da quell'aereo con una valigia piena di sogni.
Però, a volte, mi capita che, presa dalla nostalgia, io guardi delle vecchie foto e mi senta battere in petto la stessa straripante gioia di quando le ho scattate e allora, mi dico, non è tutto perduto.

Non importa quanto dentro senta di appartenere a quel mondo, non conta la nostalgia che prova visitando un tempio quando sente il legno antico sotto i calzini, è tutto inutile.Chiunque la guardi non vedrà che una strana gaijin, un’aliena, un mondo parallelo.E allora dov’è la giustizia, se si deve vivere a metà fra il mondo di quelli che ti assomigliano fuori, ma che non ti possono capire, e l’universo popolato di uomini dallo spirito simile al tuo ma che non ti accoglieranno mai?

- da  "dea color ruggine"

Scatto del tramonto di Nanba (Osaka) - settembre 2013

24 lug 2016

24 luglio 1927

Ottantanove anni fa, il 24 luglio 1927, si spengeva nella sua casa di Tokyo  lo scrittore Akutagawa Ryunosuke. Morì dopo aver assunto una dose elevata di Veronal, un medicinale che gli era stato prescritto per l'esaurimento nervoso.
Oggi Petals at my feet lo vuole ricordare in quanto scrittore più rappresentativo dell'era Taisho - uno dei più importanti letterati giapponesi del '900 - ma anche in qualità di maestro, fonte di ispirazione e, soprattutto, in veste di "amico".
La nostra è solo un'amicizia letteraria e metaforica; in ogni caso per me entrare nel mondo di Akutagawa è stato un privilegio e un onore e spero che, dovunque egli sia, mi guardi con benevolenza. Quest'estate tornerò in Giappone e la prima tappa del mio viaggio sarà proprio il luogo della sua sepoltura, a Zoshigaya.

LA "BELLA MORTE"

Nei giorni scorsi abbiamo fatto una rapida carrellata di alcuni racconti e poesie dell'autore. Stavolta ci concentreremo su alcuni aspetti della sua morte.
Ho già parlato della profonda impressione che lasciò su Akutagawa lo stagno di cadaveri nello Yoshiwara nel post: "Vento tra i pini" - haiku di Akutagawa Ryunosuke.
Probabilmente l'episodio si impresse nella mente di Akutagawa come l'antitesi di una "bella morte", infatti, come scrisse nel suo "Memorandum per un vecchio amico", egli scelse di togliersi la vita in un modo più doloroso rispetto all'impiccagione o allo spararsi con una pistola se non altro proprio per dare alla sua morte una dignità estetica: voleva lasciare  un ricordo "pulito" di sé ai familiari che lo avrebbero rinvenuto.
In una delle sue ultime opere, "Vita di uno stolto", lo scrittore raccoglie frammenti della sua vita quasi come in degli scatti, delle istantanee della coscienza. L'episodio conclusivo, "Sconfitta", è il seguente:

Anche la mano che reggeva la penna gli tremava. E incominciava a colargli saliva dalla bocca. Da quando aveva ingerito Veronal 0,8 la sua mente era sprofondata nel torpore: aveva riacquistato lucidità soltanto al risveglio. Per non più di un'ora. Viveva ormai come una cicala nell'oscurità. Appoggiandosi come a un bastone a una sottile spada dalla lama spezzata.
INEVITABILE

Ciò che colpisce di Akutagawa, oltre alla produzione letteraria in sé, è il suo lento "scivolamento" fra le braccia della morte; il lettore che abbia curiosato fra le sue pagine abbastanza da intravedere un percorso psichico - o quantomeno un'evoluzione emotiva - concorderà con il dire che il suicidio, alla fine, era inevitabile.

Già con "Rashomon", nel 1915, si delineano i contorni grotteschi della produzione di Akutagawa, e da lì in poi i caratteri con cui i suoi racconti sono fittamente scritti assumeranno sempre di più il ruolo di matite, carboncini e pennelli con cui l'autore dipinge la bruttezza e la nullità dell'animo umano. C'è in lui una sorta di impossibilità a scorgere negli uomini e nelle donne qualcosa di buono e nobile: anche quando ci riesce, queste caratteristiche positive servono per mettere in risalto situazioni particolarmente negative (ad esempio in "Morte di un cristiano"), o sono derise dagli altri uomini (ne è un esempio il protagonista di "Zuppa di riso").

Tuttavia, nei racconti e nelle poesie di Akutagawa resta qualcosa di profondamente bello e commovente: la natura.
Egli stesso scriverà in "Memorandum per un vecchio amico" che la natura gli appare sempre più bella via via che la morte si avvicina. Credo che questo sia il segnale più chiaro dell'incredibile profondità e sensibilità dello scrittore: il disagio che lo spinse al suo gesto estremo fu, forse, la percezione dell'infima condizione umana al cospetto della grandiosità di una natura che ammirava ormai "più delle donne o del sake".
Si può quasi dire che la morte di Akutagawa sia una metafora della sua epoca ricca di cambiamenti e contaminazioni straniere: la sensibilità per la natura è idubbiamente tipica della cultura giapponese, ma la morte come conseguenza dell'amare troppo intensamente - eros e thanatos - è un topos squisitamente occidentale.
Nella sua lettera d'addio, Akutagawa attribuirà il suo gesto a un crescente senso di angoscia verso il futuro di un Giappone snaturato e alla deriva, dove l'ombra del feudalesimo Tokugawa continuava a proiettarsi in modo inquietante sulla sua vita. E' vero anche che lo scrittore si sentiva prossimo a impazzire, proprio come in precedenza era successo alla madre naturale e ad un amico - e probabilmente non tollerò l'idea.

Spalancai gli occhi e levai lo sguardo al soffitto, e solo quando mi accertai che non v'era nulla di simile, li richiusi. Ma anche in quella oscurità le ali argentee continuavano a riflettersi sulla retina. Poi sentii che qualcuno saliva e ridiscendeva precipitosamente la scala. Capii che era mia moglie, mi alzai stupito e mi affacciai nella penombra del salottino di fronte alla scala.
- Che hai?
- Nulla...- mia moglie sollevò a fatica il volto e con un sorriso forzato aggiunse: - Niente, ma ho avuto l'impressione che tu stessi per morire...
Fu l'esperienza più terribile della mia vita.
-da "La ruota dentata"
DOMANDE E RISPOSTE NEL BUIO

Questo è forse quel che di più simile a un testamento psicologico ci sia stato lasciato da Akutagawa. Si tratta di un dialogo immaginario fra lui e una "una voce" (probabilmente un angelo o un demone). La voce accusa Akutagawa di tutte le sue debolezze, lo punzecchia, lo tenta, lo rimprovera; Akutagawa replica, a volte si giustifica, spiega, spesso ammette che la voce ha ragione. E' una vera e propria lotta interiore e non c'è da stupirsi se, alla fine della sua vita, lo scrittore avesse un esaurimento nervoso.
"Domande e risposte nel buio" resta dunque, insieme a "La ruota dentata", "Vita di uno stolto" e "Memorandum" una delle testimonianze più personali lasciateci dall'autore, da cui traspare chiaramente in tutto il suo vero carattere.
Questa è l'opera in cui il lettore finisce con l'affezionarsi davvero a questa figura e diventa partecipe della sua sofferenza.
Petals at my feet consiglia la lettura del brano solo dopo quella degli altri racconti: per apprezzarlo infatti è opportuno avere un'idea precisa di chi fosse l'autore.

L'EREDITA' DI AKUTAGAWA RYUNOSUKE

Ci vorrebbero libri interi e una laurea per dire chi fosse davvero Akutagawa e per comprendere pienamente la bellezza dei suoi scritti. Io, come sapete, mi limito a parlare di ciò che mi piace e spero di trasmettere un po' di passione anche a voi che mi leggete.
Akutagawa può sembrare una persona triste e malinconica a causa del gesto che ha compiuto, ma le sue opere sono intrise di forza vitale.
Ha dipinto con maestria i sentimenti universali dell'animo umano cospargendoli di magia, trasportandoli in dimensioni oniriche, fiabesche. Ha parlato d'amore. Le sue poesie rimangono tra le più belle mai scritte. Da ogni sua parola traspare una sensibilità rara che lo rende ancora oggi uno dei più grandi scrittori giapponesi del '900.
In Italia è poco conosciuto al di fuori dell'ambito accademico, ma spero che sempre più persone in futuro possano apprezzarlo. Questo è ciò che lui stesso si augurava.

UNA VOCE
Che facondo furbastro! Finiranno tutti con l'evitarti. 
IO
Potrò ancora provare emozioni profonde grazie agli alberi e alle acque. Inoltre posseggo più di trecento libri giapponesi e cinesi, orientali e occidentali. 
UNA VOCE
Ma perderai per sempre i lettori delle tue opere. 
IO
Avrò lettori in futuro.
- da "Domande e risposte nel buio"  


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22 lug 2016

"Susanowo da vecchio", di Akutagawa Ryunosuke

SUSANOWO DA VECCHIO
Susanowo, in cima al masso, si poggiava all'arco con uno spaventoso sorriso in volto.
L'incendio si estendeva. Con gridi angosciosi, gli uccelli si alzavano in volo verso un cielo tinto di nero e di rosso, solo per essere avvolti dal fumo e ricadere disordinatamente fra le fiamme. Da lontano sembravano frutti, caduti dagli alberi durante una sconvolgente tempesta.

Riprende il nostro percorso all'interno delle opere del maestro Akutagawa Ryunosuke.
La proposta di oggi è estratta da un racconto del 1920 in cui la componente mitologica che caratterizzò molta della produzione dell'autore è evidente.

La vicenda parla infatti di Susanowo (o Susanoo) il leggendario dio delle tempeste. Nella religione shintoista si narra che egli avesse indispettito la sorella Amaterasu (dea del sole e principale divinità venerata) che per ripicca si era chiusa in una grotta gettando il mondo nella più totale oscurità. Susanowo è pertanto dipinto come un dio insolente e violento.
Al di là di questo specifico racconto, che parla del rapporto "problematico" tra Susanowo e il corteggiatore della sua amata figlia, è interessante notare la peculiarità delle fiabe di Akutagawa.

L'autore infatti soleva scrivere racconti storici o mitologici attraverso i quali filtrare e rendere ancor più palesi le stranezze dei tempi moderni. Ho già trattato nella mia tesina della visione che Akutagawa aveva nei confronti della sua epoca, visione che traspare chiaramente dal finale delle sue favole senza morale.
Anche "Susanowo da vecchio", che conserva la tipica struttura delle fiabe fino alla fine, con gli ultimi paragrafi crea una rottura e lascia il lettore a bocca asciutta e, sì, anche un po' perplesso.

In occasione dell'89esimo anniversario dalla morte di Akutagawa, petals at my feet e Ukidafune condividono le citazioni più belle dell'autore.
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20 lug 2016

"Vento tra i pini" - haiku di Akutagawa Ryunosuke

Dopo il terremoto, lungo la riva accanto allo Zojoji

松風をうつつに聞くよ夏帽子
(Matsukaze wo utsutsu ni kiku yo natsuboushi)

Ascolto assorto
il vento tra i pini -
un cappello di paglia

Questo haiku di Akutagawa Ryunosuke, datato 1923, fu scritto nei primissimi giorni che seguirono al devastante terremoto che colpì Tokyo e il Kanto. L'introduzione dipinge brevemente la situazione: siamo sulla riva del fiume accanto al tempio buddista Zojoji e l'intera città è sepolta sotto le macerie.
Il terremoto del 1923 fu così forte da radere al suolo interi quartieri e causò migliaia di vittime: Akutagawa stesso trascinò dei suoi colleghi scrittori attraverso la rovine dello Yoshiwara, il quartiere dei piaceri, a guardare i cadaveri delle prostitute ammassati in un laghetto. La scena lo turbò molto.

Questo haiku sembra un tentativo dell'autore di prendere una boccata d'aria, di distogliere l'attenzione dalla devastazione che lo circonda e al tempo stesso è una presa di coscienza tipica giapponese.
Quello che alla prima lettura sembra un quadretto estivo, se calato nel contesto in cui questo haiku fu scritto si carica di significati più profondi: il pino simboleggia la natura antica e permanente, che non si piega neanche quando la terra trema, e il capello di paglia - che nell'originale è un "cappello estivo"- è sinonimo delle stagioni che si susseguono e, quindi, del tempo che passa nonostante gli affanni degli uomini. 
Appare quasi che l'atteggiamento dello scrittore nei confronti della catastrofe naturale appena avvenuta non sia tanto diverso dal modo in cui egli vede il passaggio del vento tra i rami dei pini o lo scorrere del tempo: c'è una sorta di tranquilla rassegnazione, una resa incondizionata dell'uomo che non può fare altro che soccombere alla potenza della natura.
Questa chiave di lettura è rafforzata dal riferimento al tempio buddista menzionato nell'introduzione.

N.d.a.:
Il grande terremoto del 1923 è più volte menzionato e descritto nel libro "La banda di Asakusa", scritto tra il 1929 e il 1930 dal Premio Nobel Kawabata Yasunari

Oggi il tempio Zojoji è un perfetto esempio della convivenza e del contrasto di tradizione e modernità che caratterizzano il Giappone. Alle spalle dell'edificio principale, infatti, si staglia la Tokyo Tower.

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19 lug 2016

Principessa delle fiabe - dal "Diario" di Murasaki Shikibu

PRINCIPESSA DELLE FIABE


Tornando al mio alloggio, diedi un'occhiata nella stanza di Dama Saisho, che però trovai addormentata. Posava il capo su una scatola per scrivere, a mo' di guanciale, e il suo viso era semicelato da una serie di vestaglie, qual rosso cupo foderata di verde, qual purpurea con fodera rosso cupo, sopra le quali ella aveva steso una veste cremisi di lucentissima seta: qualcosa di incantevole a vedersi. Pressoché convinta che ella fosse uscita fuori da un quadro, sollevai la manica che le copriva il volto.
"Sembri proprio una principessa delle fiabe!" le dissi.
Si destò di soprassalto.
"Sei fuori di senno?" disse, sollevandosi su un gomito. "Svegliar così la gente! E' scandaloso!"
Il suo rossore era affascinante. Fu uno di quei rari momenti in cui una persona già leggiadra d'un tratto ti appare ancor più bella.

 Questo è uno dei miei estratti preferiti del "Diario" di Murasaki Shikibu, la leggendaria autrice del Genji Monogatari (o Racconto di Genji). Il testo, oltre che a dipingere con pochi, semplici dettagli, una scena di particolare bellezza, è carico di tenerezza: si percepisce l'affetto fra queste due donne della corte Heian che condividono lo stesso mondo e la stessa malinconia all'ombra di cortine e paraventi.
Ho sempre trovato commovente il fatto che una scena così dolce sia sopravvissuta a mille anni di storia e che al giorno d'oggi tutti la possano rivivere. Questa è la potente magia della letteratura.

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18 lug 2016

"L'impermeabile", da "La ruota dentata" di Akutagawa Ryunosuke

L'IMPERMEABILE

Come avevo previsto, il treno per Tokyo era partito da qualche minuto. Su una panchina della solitaria sala d'attesa era seduto un uomo con indosso un impermeabile; guardava distratto quel che accadeva all'esterno. Mi tornò alla mente il discorso sui fantasmi che avevo appena udito. Mi limitai ad un sorrisetto ironico ed entrai nel caffè di fronte alla stazione.

"L'impermeabile" è il brano iniziale de "La ruota dentata".
Il racconto - scritto in chiave apparentemente autobiografica - descrive degli strani e inquietanti episodi attraverso cui il protagonista comincia a sospettare di stare impazzendo.
Fra strani eventi, presagi, sinistre coincidenze e emicranie persistenti, il protagonista inizia a vedere degli ingranaggi che si muovono sospesi nel vuoto con sempre maggior frequenza.

Inutile dire che un racconto così personale, in cui l'autore stesso probabilmente prende angosciosamente atto della debolezza della sua psiche, ammettendolo nero su bianco, necessita di un'analisi approfondita (che proporrò in futuro, forse).

Sicuramente, questo è uno degli scritti di Akutagawa a cui sono più affezionata; dalle parole affiorano i sentimenti e le paure di un uomo estremamente sensibile e disperato, combattuto fra un'incontenibile amore per la bellezza della natura e un'insopportabile angoscia nei confronti della nuova società giapponese.  "La ruota dentata" trascina il lettore in un mondo surreale e ambiguo e lo fa affezionare suo malgrado a quello che, prima ancora che un grande scrittore, fu un uomo sensibile, solo e profondamente capace di amare.

In occasione dell'89esimo anniversario dalla morte di Akutagawa, Petals at my feet e Ukidafune propongono le sue citazioni più belle.
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17 lug 2016

"Il fazzoletto", di Akutagawa Ryunosuke

IL FAZZOLETTO

I suoi pensieri erano rivolti ancora al contegno ammirevole di Nishiyama Atsuko.
Mentre cenavano, aveva raccontato tutta la storia alla moglie, elogiando lo spirito bushido di quella donna giapponese. La moglie, amante del Giappone e dei giapponesi,non poteva non trovarsi d'accordo con lui;il professore, dal canto suo, era contento di avere nella moglie un'ascoltatrice spassionata. Nella sua mente ora fluttuavano insieme, secondo una logica molto particolare, le tre immagini della recente ospite, di sua moglie e dell lanterna di Gifu.

- cit. dal racconto breve "Il fazzoletto", di Akutagawa Ryunosuke

Questo è forse uno dei racconti più conosciuti - e dibattuti - di Akutagawa.
Il professore di Giurisprudenza dell'Università Imperiale di Tokyo, Kinzo Hasegawa, è intento a leggere un saggio di Strindberg sulla drammaturgia comodamente seduto nella sua veranda quando riceve la visita della madre di uno suo ex studente.
La donna è venuta a comunicargli la morte del figlio in seguito a una malattia: ci tiene particolarmente a ringraziarlo per la benevolenza dimostrata dal professore nei confronti dello studente.
Il professore è estremamente sorpreso nel constatare la calma e la serenità della donna dopo un simile lutto: la sua reazione composta è del tutto inusuale.
Solo quando le sfugge di mano il ventaglio e il professore si china per raccoglierlo da terra, l'uomo si accorge che le mani della donna tremano violentemente e che stringono un fazzoletto con forza: è attraverso quelle mani che la donna sta veicolando tutto il suo dolore per la morte del figlio.

Se di per sé la storia può sembrare semplice - e indubbiamente commovente -  la particolarità del racconto sta nella considerazione del professor Hasegawa, che finisce con il paragonare il bushido, la filosofia dei samurai, al manierismo, dove l'estrema raffinatezza dei modi sono frutto di artificiosità e innaturalezza.

In occasione dell'89esimo anno dalla morte dell'autore, Petals at my feet e Ukidafune condividono le citazioni e gli estratti più significativi della produzione letteraria di Akutagawa.

16 lug 2016

"La luna", di Akutagawa Ryunosuke

LA LUNA

La incontrò per caso sulle scale di un albergo. Pur essendo di giorno, il volto della donna pareva soffuso dal chiarore lunare. La seguì con lo sguardo (non si conoscevano) e provò una tristezza sino ad allora ignota.

- brano tratto da "Vita di uno stolto", di Akutagawa Ryunosuke
In vista dell'anniversario della sua morte (24 luglio 1927), Petals at my feet e Ukidafune pubblicheranno ogni giorno estratti e citazioni delle opere di uno degli autori più grandi del panorama letterario giapponese del XX secolo.
 

15 lug 2016

"Monti d'estate" - haiku scelto di Akutagawa Ryunosuke

夏山や山も空なる夕明かり
(Natsuyama ya yama mo sora naru yuuakari)

Monti d'estate - 
e anche i monti sono cielo 
nella luce della sera.

haiku di Akutagawa Ryunosuke

Questo è uno dei miei haiku preferiti di Akutagawa. 
Leggerlo mi ha sempre commossa, forse per la semplicità e la bellezza dell'immagine descritta: il profilo della montagna che sbiadisce fino a fondersi con il cielo al crepuscolo.
Secondo me questa poesia è un ottimo esempio di come un haiku dovrebbe essere: immediato, sensoriale, ferma sulla carta un istante, un attimo lungo un battito di ciglia, immortala una scena appena prima che cambi.
La sensibilità del poeta in questo caso capta la bellezza nella catena montuosa all'imbrunire, uno spettacolo quotidiano a cui solitamente nessuno fa caso.

Foto del panorama visto dal monte Hiei - Kyoto

14 lug 2016

Pioverà nel deserto

Non faccio mai post “impegnati”.
Di solito parlo di letteratura, di libri, di poesie. Parlo di Giappone.
Oggi invece voglio rubare un po’ di spazio nel mio blog e dire quel che non dico mai, non tanto perché non abbia un’opinione: è che quando la espongo mi infiammo; penso che per sentirsi autorizzati a dire apertamente cosa si pensa riguardo alle faccende importanti, si debba essere sicuri di essere almeno informati sulla realtà dei fatti, cosa che io non faccio per pigrizia e sì, anche per comodità a volte.

Davanti alle stragi, alle morti, alle ingiustizie provo, più che rabbia cieca, una sorta di repulsione. Tipo i terroristi, i violenti, i maschilisti, gli omofobi, gli ignoranti e certi politici… mi fanno vomitare. Quando succede qualcosa cerco di non pensarci perché sono troppo debole per supportare sulle spalle il dolore della gente. Non sono empatica, non voglio esserlo.

Mi dico sempre che un giorno cambierò il mondo, che il mio messaggio scuoterà i poli della terra, che il mio progetto ci ridarà speranza: il fatto è che questo progetto non esiste e il tempo scorre. Voglio inventare un cerotto miracoloso che risani una ferita gigantesca e aperta, e nel frattempo lascio che il sangue scorra. Ci sono dei momenti in cui la mia debolezza davanti al dolore del mondo mi dà le vertigini.

Però è successo un fatto. Un’ennesima morte che stavolta non sono riuscita a evitare: ci sono inciampata, sono caduta e mi ci sono sbucciata le ginocchia.
Lui è F., una vittima dell’incidente ferroviario in Puglia.
Era appena rientrato dall’anno in Giappone, lo stesso da cui io sono tornata due anni fa. Lo sento vicino perché quell’anno all’estero – lo sa bene chi lo ha fatto – non è una parentesi. Non è un’”esperienza”. Non è “solo un anno”.
Quell’anno all’estero è l’inizio di tutto.

Tra le tante storie di vite strappate che sentiamo ogni giorno questa mi ha fatto particolarmente male. In Giappone ho capito cosa significasse vivere: è stata dura, sentirsi così felice e triste, forte, fortissima a volte, sola contro il mondo. Ogni emozione ti investe con il triplo dell’intensità, ogni problema ti si para davanti con l’insormontabilità di un monte e ogni soluzione te la devi sudare, la devi tirare fuori da dentro di te, superando a volte le tue paure e i tuoi difetti. Oltre a essere stato l’anno più bello e significativo della mia vita, è stata la migliore palestra per il carattere e per l’anima.
L’anno all’estero è una chiave di volta in cui realizzi che la vera ricchezza del mondo non è la forza che tenevi nascosta dentro, ma tutto ciò che è diverso da te e che ti ha costretto (o meglio, aiutato) a tirarla fuori. La diversità è la ricchezza del mondo. La saggezza accumulata in millenni di storia di popoli diversi, le esperienza delle persone, l’arte, la cucina… le religioni! Questa è la ricchezza del mondo.
Questo è ciò che ha fatto tornare a casa me, F. e tanti, tantissimi ragazzi di tutto il mondo come persone nuove, forti, aperte e tolleranti. Noi siamo i nuovi cittadini del mondo e abbiamo un messaggio positivo da trasmettere.
Abbiamo una missione.
E sapere che F. è tornato a casa pronto per questa missione, oltre che con una vita intera davanti, mi ha scossa profondamente. Era solo all’inizio di un’esistenza nuova e consapevole.
Ma la verità è che tutti noi su questa terra abbiamo una missione e che troppo sangue innocente viene versato. Il Cielo non ne può più di sentire i lamenti strazianti di chi soffre sulla terra e non viene ascoltato.
Questa vicenda mi ricorda che la missione di F. è anche la mia.

Gli esseri umani non sono tutti uguali, e chi si ostina a dirlo è persino più patetico di chi delle nostre differenze fa una classifica e decide chi secondo lui è meglio o peggio.
Siamo diversi, ognuno di noi, e non c’è categoria che tenga davanti alla nostra unicità: provate a mettere in fila cento bambini – per comodità diciamo che sono maschi. Vi sembrerebbero tutti uguali? Facciamo anche che hanno tutti e cento i capelli castani, sono tutti alti un metro e trenta e hanno tutti gli occhi verdi. Non saranno mai comunque tutti uguali: i loro gusti di gelato preferiti saranno diversi, i loro giochi più amati anche, qualcuno tra loro vorrà fare il dottore, qualcun altro l’insegnante.
QUESTO E’ BELLO.
 E’ miracoloso, oserei dire. La vastità di combinazioni che la nostra specie ha creato, i nostri passati e le nostre usanze sono un dono.

Non so se questo post è stato più uno sfogo che un “esprimere la propria opinione”. Come avevo anticipato, mi scaldo facilmente.

Forse era meglio quando recensivo libri e scrivevo poesie che nessuno legge. Forse sarebbe meglio se invece che scrivere iniziassi a pensarci seriamente, a questo progetto rivoluzionario.
Insieme siamo più forti dei mali del modo. Ci stanno mettendo alla prova.
Serve un miracolo e quel miracolo possiamo essere noi: pioverà nel deserto, pioverà così tanto che ci crescerà una foresta.


11 lug 2016

Il centro dell'Universo

Dopo aver dischiuso le labbra sottili, il ragazzo lupo tracciò sulla terra umida un cerchio: lo scavò con le lunghe dita affusolate e la terra gli sporcò le unghie lisce.
«Ecco, questo è il centro dell’Universo», sentenziò senza staccare i sottili occhi neri dal solco che aveva appena disegnato.
La fabbricante di sogni distolse lo sguardo e si morse le labbra, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime.
«Sei crudele», mormorò. Alle loro spalle, la catene montuose si distendevano ricoperte dal verde degli alberi. Al limitare del bosco crescevano radi dei cespugli di ginestre.
Il ragazzo lupo piegò gli angoli della bocca, rattristato: anche lei sapeva che non era colpa sua. Se avesse potuto scegliere, il ragazzo lupo non le avrebbe mai fatto del male.

La fabbricante di sogni tornò spesso al centro dell’Universo. Anche quando la pioggia autunnale l’aveva ormai cancellato e l’erba primaverile vi era cresciuta sopra, in qualche modo ritrovava sempre la strada.
Solo il ragazzo lupo non c’era. Qualcuno diceva che vagasse in foreste lontane alla ricerca della cura di tutti i mali, per altri era addirittura morto per amore.
L’unica cosa certa è che solo lui poteva cancellare il centro dell’Universo e liberare finalmente la fabbricante di sogni dal suo tormento: lei non poteva non tornare su quel luogo. Neanche se si fosse incatenata ai poli opposti della terra sarebbe riuscita a ignorare il richiamo.
Passarono gli anni, e al centro dell’Universo crebbe un alto pino rosso: la fabbricante di sogni soleva arrampicarcisi, sbucciandosi le piante dei piedi, per sedersi su un ramo. Allora, mordendo una pesca bianca, guardava la sua torre ricoperta d’edera, in lontananza, e non riusciva neanche più a desiderare che il ragazzo lupo venisse a cancellare le tracce del solco scavato tanti anni prima. L’odore della corteccia dell’albero era lo stesso che emanava la sua pelle al sole.
Andare al centro dell’Universo era l’unico modo in cui poteva amarlo – non perché lui fosse lontano, o forse addirittura morto: se anche il ragazzo lupo fosse restato, lei non sarebbe stata in grado di renderlo felice. Ma per qualche ragione, rimanendo fedele a quei rami densi di resina, a quegli aghi, a quelle radici rossastre, ferendosi i piedi su quella dura corteccia, sentiva di dare la più grande prova d’amore di cui sarebbe mai stata capace.
Appollaiata sul suo ramo, le gambe bianche penzoloni, passava serate intere ad appuntare matite o a intessere reti di stelle cantando una vecchia canzone che faceva:

Corri, corri, cacciatore di libellule
fin dove ti sarai spinto oggi?

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