24 lug 2017

«Burattini» - 2016.08.10

Cielo e oceano si fondevano l’uno nell’azzurro dell’altro formando una distesa scintillante.
Osservavo quella magia attraverso il vetro del pullman che attraversava il gigantesco ponte fra l’Honshu, l’isola più estesa dell’arcipelago giapponese, e la più piccola Awajishima, aspettandomi che da un momento all’altro pesci e uccelli attraversassero quella sconfinata distesa blu gli uni accanto agli altri.
Per una ragazza nata e cresciuta fra le colline del Chianti e fra gli stretti vicoli fiorentini, la vastità dell’Oceano rappresentava ancora un mistero affascinante paragonabile solo ai  viaggi nello spazio.
Avevo vent’anni e mi sentivo leggera ed euforica come se fossi appena ritornata a casa.
Il Giappone, in effetti, era un po’ casa mia. Mi scorreva nelle vene, ma non abbastanza perché la mia fisionomia non tradisse le mie origini lontane.
Mi appartenevano la sua lingua e la sua storia, anche quella frutto di antiche fantasie, come ad esempio la leggenda che vuole che Awajishima sia la prima isola partorita dalle divinità ancestrali Izanagi e Izanami.
Di fronte a me, in fondo al lungo ponte sospeso sul mare, l’isola sembrava assopita sotto la vegetazione rigogliosa.

Scesi circa un’ora dopo alla stazione di Minami-Awaji.
In quella zona dell’isola, la vegetazione si faceva più rada e brulla per dare respiro a una baia silenziosa con un minuscolo porto in cui erano ormeggiati una decina di pescherecci.
C’erano molti turisti. Posti come Awajishima o Tokushima erano mete predilette dei viaggiatori che si spostavano in macchina dalle isole di Kyushu e Shikoku alla più centrale Honshu.
Le piccole cittadine marittime che sorgevano nei pressi dell’autostrada rappresentavano un ottimo luogo in cui riposarsi prima di riprendere il viaggio. Erano costituite perlopiù da vecchi edifici in cemento in stile anni ’70 con piccoli negozi di souvenir e ristoranti, alberghi termali e casette tradizionali incastrate alle pendici delle montagne.
Awajishima per me, però, non era né la sosta di un lungo viaggio, né la meta di un soggiorno relax.
Tutto era nato da un libro di Tanizaki, “Gli insetti preferiscono l’ortica”, con cui avevo scoperto il mondo delle marionette Bunraku. Grazie alle parole dell’autore, ero arrivata a comprenderne le sfumature stilistiche, la poetica e la forza espressiva: adesso volevo vederle e apprezzarle con i miei occhi.
Quest’arte tradizionale si era ormai quasi del tutto estinta e non sopravviveva che nel luogo dov’era nata, ovvero l’isola di Awaji, in particolare nell’ enorme teatro che mi si stagliava davanti, simile a un cappello da prestigiatore al contrario e dalla superficie porosa come uno scoglio consumato dal mare.
Il prossimo spettacolo sarebbe cominciato alle 13.30, ciò significava che avevo un’ora di tempo per pranzare; decisi quindi di avventurarmi fra i turisti e di cercare un ristorante nel vecchio centro commerciale accanto al porto.
Lo trovai, affollatissimo, all’ultimo piano: sembrava più una grande mensa scolastica che un ristorante. L’odore delle pietanze però era delizioso perciò presi posto a un tavolo di fronte alla parete a vetri affacciata sul mare e ordinai un piatto a caso dal menù.
Le voci dei negozianti che vendevano pesce e molluschi essiccati giù, nel porticato, arrivava fino a lì mescolandosi con il chiacchiericcio dei clienti.
Come al solito, ero l’unica straniera.
Prevedevo che, con tutta quella gente, mi avrebbero servita piuttosto tardi e perciò tirai fuori il diario di viaggio e iniziai a prendere nota delle impressioni lasciatemi da quel luogo.
La penna scorreva sulla carta con una sorta di fretta febbrile, l’esatto contrario del blocco dello scrittore.
Mi interruppi solo quando mi fu servita l’ordinazione e mi trovai faccia a faccia con un filetto di pesce ancora sfrigolante di piastra.
Ne osservai la forma da diverse angolazioni, ma non somigliava a niente che avessi già visto: aveva una pelle bianca e lucida, carne compatta e ossa rigide e cave.
Ne tagliai un pezzo con le bacchette e dalla polpa colò abbondante sughetto profumato. Avvicinai il pesce alle labbra e lo assaggiai.
La carne succosa mi si sciolse arrendevole sulla lingua, sprigionando un’esplosione di sapori e fragranze che per un attimo mi annebbiarono i pensieri: mi sentii leggera, come quando si realizza di trovarsi al posto giusto nel momento giusto.
Compresi che doveva esserci qualcosa oltre alla qualità del pesce o all’elaboratezza della ricetta.
Lanciai uno sguardo verso la cucina, da cui cameriere con fazzoletti rossi in testa entravano e uscivano indaffarate.
La scena mi apparve sotto una luce diversa: tutte quelle persone che si davano daffare nel ristorante dovevano amare profondamente il loro lavoro. Probabilmente vivevano la stanchezza e il dolore in modi che la gente di città non poteva neanche immaginare e condivano ogni loro azione con la passione per la vita che questo luogo antico infondeva da generazioni nei suoi abitanti.
Nel mio piatto, questi sentimenti si mescolavano insieme all’amore per il buon cibo e all’ospitalità, infondendo al pesce un sapore squisito e irriproducibile da qualsiasi spezia o condimento.

Più tardi, fuori dal teatro Bunraku, mentre aspettavo il pullman di ritorno seduta nella sala d’aspetto di Minami-Awaji, riportavo su carta le mie impressioni sullo spettacolo di burattini.
Sotto molti aspetti era stato completamente diverso dalla descrizione di Tanizaki: diverso in modo bello.
La meccanica di quelle bambole permetteva a chi le manovrava di riprodurre movimenti realistici, fluidi, morbidi; muovevano le dita, gli occhi, alcune cambiavano persino espressione o potevano far uscire delle corna da oni in cima alla testa.
Per tutto il tempo, le pagine di Tanizaki mi erano riaffiorate davanti e ne avevo compreso ancor meglio la bellezza struggente e l’incanto che si prova davanti a una rappresentazione Bunraku.
La musica accompagnava così bene le movenze dei burattini che sembrava scaturire dai loro stessi corpi e la coordinazione dei manovratori dimostrava tutta la loro sorprendente abilità.
Il mio spettacolo preferito era stato quello di Yaoya Oshichi, che nel tentativo di salvare il suo amato sfida il gelo della notte per suonare la campana antincendio e distrarre la guardie, anche se questo metterà a repentaglio la sua vita. La bambola di Oshichi aveva lineamenti così dolci e capelli tanto folti da sembrare una ragazza in carne ed ossa; a distanza di tempo, vedevo ancora la fantasia variopinta delle sue maniche ondeggiare come mossa da vere raffiche di vento.
Solo un dettaglio mi aveva sconvolta e tuttora faticavo a riprendermi dallo shock.
A fine spettacolo, a luci accese, i burattinai avevano dato una piccola dimostrazione di come si manovrassero quelle marionette dal meccanismo tanto elaborato.
 Durante la spiegazione, la bambola di Oshichi aveva iniziato a muoversi con grazia e a ballare con l’eleganza di una maiko. A un certo punto si era perfino portata la mano di legno davanti alla bocca, aveva chiuso gli occhi ed era scoppiata in una risata civettuola.
Era viva, insomma, una piccola persona in carne ed ossa.
A dimostrazione finita, la burattinaia più giovane l’aveva presa in braccio e portata dietro le quinte: la bambola le si era adagiata docilmente sulla spalla come una bambina addormentata.
Solo pochi istanti dopo notai che teneva gli occhi spalancati verso il vuoto.
Ma come, un attimo prima rideva graziosa e ballava e adesso non era che un guscio vuoto privo di vita, un cadavere accasciato sulle spalle di una burattinaia!

Una volta scesa dal pullman, alla stazione ferroviaria di Maiko, rividi Yūto.
Di spalle, aveva la pelle abbronzata e i capelli schiariti dal sole ma l’altezza, la curva della schiena, le mani, il modo in cui camminava… era lui, ne sono certa.
Lo capii dal modo in cui senza indugio mi seminò, come al solito, senza mai voltarsi indietro.
Non sapevo cosa provassi: una parte di me continuava dolorosamente ad amarlo.
Ma per il resto, quel viaggio mi aveva fatto riconciliare con un aspetto della vita più vero e profondo.
Osservai la sua schiena farsi sempre più piccola, finché non sparì.
Realizzai che quel giorno il cielo mi aveva dato un’occasione irripetibile.
Questa era l’ultima volta che lo vedevo: era andata proprio come due anni prima, solo che stavolta ero pronta ad accettare quel triste finale.
E mi guizzò in testa l’intuizione che l’Oceano, le stelle, le leggende, gli spettacoli di burattini e la perdita di una persona amata non fossero altro che modi diversi per dire la stessa cosa.
La vita agisce attraverso forze misteriose che non possiamo comprendere e ci regala gioia e tristezza proprio come il cielo dona alla terra il sole e la pioggia per farle dare frutto.
Anche ciò che ci fa male in realtà ci nutre e ci aiuta a germogliare, a crescere e infine a sbocciare.
Non dobbiamo chiederci il perché, dobbiamo solo avere fiducia. Sì, dev’essere proprio così, pensai.
Mi gettai stancamente su una panchina in attesa del treno e scorsi rapidamente sulla fotocamera le foto della giornata.
Eccolo lì, lo scatto che aveva immortalato quel pesce misterioso e squisito.
Sorrisi fra me, ripensando alla lezione che mi aveva insegnato, e lo ringraziai mentalmente.

«Gochisou-sama deshita».



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