15 set 2017

Il mostro allo specchio

Ciglia fitte intrappolavano la luce del sole, proiettando un’ombra scura sulle sue guance.
Era il sesto mese dell’ennesimo anno. La pelle diafana catturava la luce del tramonto suscitando in chiunque l’avesse guardata la stessa sensazione di quando si guarda un campo di grano maturo.
Sfrecciando sulla sua bicicletta, la ragazza scivolava silenziosamente da una pozzanghera di luce che filtrava tra le fronde degli alberi all’altra.
Lei sapeva che quel gioco di ombre aveva un nome, nella lingua di un paese lontano.
Sapeva che anche quello che provava aveva un nome, un nome dolce e aspro insieme. Un nome che faticava a scivolarle fuori dalle labbra serrate.
Era come se la sua anima le si fosse accartocciata in gola: l’aria passava giù per la trachea ma si sentiva soffocare lo stesso.
Se avesse provato a espellerlo, il suo cuore si sarebbe trasformato in una matassa di spilli; avrebbe aperto la bocca e tossito sangue.
“Pedalare. Pedalare risolve tutto, di solito”, pensò.
Una gamba dopo l’altra, tentava di sciogliere quel gomitolo infeltrito di pensieri.
Poi si fermò di colpo sullo sterrato e guardò l’airone, nel ruscello. Anche lui la fissava.
Scambio di sguardi di un attimo; poi quest’ultimo spiegò le ali e volò via.
La ragazza era sola.
Questo pensiero le piovve addosso e fu come se un asteroide l’avesse colpita in pieno.
Anzi no.
L’asteroide almeno avrebbe messo la parola fine a quella sofferenza.
Mollò la bici sul sentiero e scese a passi lenti verso l’argine del torrente. Si chinò con la moderazione che accompagnava a tutti i gesti che si auto imponeva.
Il ruscello le restituì un’immagine di sé spezzettata, come se qualcuno si fosse divertito a frantumarle la faccia.
Ma in fondo era così che si sentiva. Nessuno specchio le avrebbe mai restituito un riflesso tanto fedele.
Eccola lì, ridotta a brandelli, irriconoscibile, una “signora nessuno” sul cui volto luci e ombre facevano a pugni all’infinito, eccolo il suo groviglio di emozioni che si ingarbugliava sulle increspature dell’acqua, piccole onde inquiete di rabbia e speranza.
Si sedette sull’erba e si volse verso le nuvole aranciate del tramonto. Tutto era bellissimo, tutto tranne lei.
Rivolse al cielo lo sguardo meno umano che possedeva, quello meno espressivo, più glaciale, quello che usava quando voleva mettere almeno un centinaio di muri di pietra fra sé stessa e quel mondo che giocava a masticarla e sputarla via.
Eppure almeno il ruscello scorreva in una direzione precisa; la sua angoscia sarebbe stata lavata dalle onde dell’oceano.
La ragazza, invece, in che direzione stava scivolando?
“Siamo simili”, pensò, “come se ci guardassimo allo specchio”.
Si rialzò, raccolse la sua bici, la sua anima sciocca di bambina, il suo sguardo meno umano.
Ma si lasciò alle spalle la vera sé, quella riflessa nel ruscello, quella riflessa negli occhi di lui.  



12 set 2017

Giovedì scorso

E oggi correva, che scema!, correva verso la fermata dell’autobus con il volto deformato dall’ansia, il cuore che le si rivoltava nel petto come un insonne nelle lenzuola, e poi le si è aperto lo zaino e tutto è caduto e si è chinata a raccogliere i libri da terra in fretta e furia perché – perché?, perché correva incontro all’ennesimo supplizio?!
Eppure lo sapeva, era come lanciarsi contro la lama di un pugnale, ma non riusciva a smettere di correre e quando finalmente era salita sull’autobus le scappava da vomitare, guardava le persone e voleva vomitare, le sue scarpe, vomitare, la strada, vomitare, le macchine, vomitare.
E non c’entrava un cazzo lo stomaco, la digestione, c’entra che dentro tutto premeva per uscire, per scappare, cercava di aprirsi un varco facendo a spallate contro il suo sterno, tutto si stava ribellando alle leggi della genetica, i polmoni al posto dei reni, il cuore al posto del fegato, il cervello al posto delle mani, gli occhi incastrati fra le scapole, tutto tutto tutto si era rotto il cazzo di starsene lì a farsi massacrare, e i pensieri peggio!, i pensieri come dita ficcate in gola, pensieri come frecce infilzate nella mente, e un disperato bisogno di ordine, pulizia, silenzio.
Di vomitare.
Era scesa dall’autobus, il volto come un foglio pieno di scancellature. Con la solita flemma solenne che accompagna tutti i gesti che si autoimpone, aveva camminato. Ogni passo era un nuova scossa di terremoto.
Qualcosa dentro di lei lottava fra il disperato bisogno di arrivare il prima possibile e la paura, il terrore, la voglia di girare i tacchi e scappare per sempre, non vederlo più, non tornare più, non amarlo più.
E poi era arrivata.
Il volto come un foglio bianco. Sotto casa sua.
E la finzione, il teatrino più degno che era riuscita a mettere su, un teatrino del cazzo perché poi lui le aveva detto “sei strana oggi” – come se non sapesse – e lei che nega l’evidenza perché comunque l’evidenza è uno strascico di temporale nei suoi occhi, tutto sommato un risultato accettabile quando dentro hai l’apocalisse.


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