30 apr 2016

Aware e altre cose indefinite - racconto



Ciglia fitte intrappolavano la luce del sole proiettando un’ombra scura sulle sue guance.
Era il quinto mese dell’ennesimo anno.
La pelle diafana catturava la luce del tramonto suscitando in chiunque l’avesse guardato la stessa sensazione di quando si osserva un campo di grano maturo.

Sfrecciando sulla sua bicicletta, la ragazza scivolava silenziosamente da una pozzanghera di luce di un lampione a un’altra.
Gli intervalli fra un pezzo di strada illuminata e l’altro erano interminabili: era come essere inghiottiti dalla notte. La ragazza in quei momenti provava una sensazione mista di eccitazione e paura e si chiedeva cosa sarebbe successo se per caso quel buio l’avesse risucchiata.
A sinistra c’era un campo incolto e il bosco sulla collina, a destra scorreva il fiume. C’erano, ma non si vedevano.  In compenso se ne sentiva perfettamente il suono.
E, ad un tratto, il sensuale profumo dell’osmanto riempì l’aria della notte.

La fabbricante di sogni appuntava una matita.
Nella penombra della sua stanza in cima alla torre della stazione meteorologica, seduta sul pavimento, girava l’appunta matite energicamente. Intorno alle sue gambe i trucioli dell’appuntatura si arrotolavano in spirali smisurate.
«Ma non è già abbastanza appuntita?».
Senza alzare gli occhi, la fabbricante di sogni replicò che servono matite molto affilate per sperare che si conficchino nel cuore delle persone.
Fuori, il tempo aveva fatto crescere intorno alla torre una fitta rete di edera rampicante che impediva alla luce del sole di filtrare dalle finestre.

Un cartello di legno con una scritta di vernice rossa sbiadita recitava: “sentiero per i fantasmi”. Indicava una salita stretta e ripida scavata fra gli alberi di betulla.
L’uomo a malincuore dovette lasciare i suoi ultimi effetti personali in un angolo della radura. Una volta alleggerito e con le mani vuote cominciò a salire il pendio aggrappandosi ai tronchi bianchi degli alberi.
Accanto alla sua valigetta di pelle, al suo orologio e  al suo cappello nero, erano ammassati anche un tavolo da biliardo, un tappeto arrotolato, una bambola, un vecchio specchio di bronzo e centinaia di altri oggetti.

29 apr 2016

Lettera al ragazzo-lupo, che oggi compie vent'anni

Caro ragazzo-lupo,
o Washi, uomo gentile, o semplicemente "tu", come sono solita chiamarti nelle mie poesie.
Oggi compi vent'anni.
In questi due anni in cui non ho avuto tue notizie, se non quando ti ho visto in un paio di foto di gruppo il giorno del diploma, ti ho pensato molto.
Molto è riduttivo, ti ho pensato tantissimo. Sempre. Finché non sentivo il petto e gli occhi bruciare, ti ho pensato incessantemente.
A volte mi torni in mente senza un motivo, tipo l'altro giorno che leggevo "Bellezza e Tristezza" e Keiko si appoggia al balcone con un'aria furba dipinta in voto e io ti rivedo appoggiarti con la schiena nello stesso modo allo stipite della porta di classe tua. Allora ero arrabbiata per un motivo davvero stupido e il tuo sorriso, a metà tra il divertito e l'irritato, mi accusava di essere nient'altro che una bambina. Ed ecco, tu continui a vivere in me più che con i tuoi tratti o con la tua voce, con le tue accuse silenziose. Vivi in me attraverso il senso di colpa e la vergogna.
E sono questi flashback veloci e apparentemente scollegati dalla realtà a darmi la misura di quanto in realtà la mia vita sia segnata da questa nostalgia per te e da questo senso di incompletezza causato dall'assenza della tua approvazione.
Scandisco così il ritmo della mia vita, tra momenti in cui mi dimentico che mi manchi e momenti in cui mi sembra di non poter vivere senza di te.
E vorrei smettere, ma non ci riesco.
Caro ragazzo-lupo, i mesi diventano anni e io non sono migliorata neanche un po'. Per quanto mi sforzi, resto la solita bambina egoista che ti ha causato tanti problemi. Ci ho provato non sai quanto, e mi ero illusa pure di esserci riuscita, ma invece niente.
Il mio sentimento per te, però, è mutato.
Ho dimenticato la tua faccia - non sai quanto mi devo sforzare per tentare di ricordare almeno qualche dettaglio in più - e a volte non rammento il timbro della tua voce. Potrei descriverti a parole, ma ridisegnarti nella mia testa mai. Certamente ricordo che eri bellissimo, ma non posso più affermare di amarti per il tuo aspetto.
Direi che adesso che è passato tanto tempo, apprezzo molto di più il modo in cui pazientemente mi hai fatto maturare: le tue parole, i tuoi silenzi, anche i tuoi trattamenti così duri, oggi mi appaiono chiaramente collegati dal fil rouge della tua gentilezza.
Cercare di metterti nero su bianco, di dipingere i contorni della tua compassione mi risulta troppo difficile.
Mi dispiace solo di non avere il coraggio di chiederti scusa.
Mi dispiace di non avere il coraggio di scrivere a qualcuno per chiedere se stai bene, se sei felice. Mi basterebbe questo.
Sei felice, ragazzo-lupo?
Sei amato tanto quanto meriti?
Quando saremo così vecchi che le nostra ossa si trasformeranno in polvere, quando saremo morti entrambi, allora accetterai di rivedermi?
La vita va avanti, com'è inevitabile, e io a fatica ogni giorno cerco di buttarmi alle spalle qualche parte di te, un pezzetto dopo l'altro. Però oggi che compi vent'anni realizzo che non ho fatto un buon lavoro per dimenticarti.
Quindi mentre a te va l'augurio di una vita felice - oggi diventi ufficialmente maggiorenne nel tuo Paese! - io rinnovo il mio impegno a non pensarti più e a lasciarti scivolare via nell'oblio.

25 apr 2016

Calla selvatica

Mi sono fermata davanti a te, mentre tornavo a casa.
Pioveva ma era domenica, non mi andava di aspettare l'autobus per mezz'ora e mi sono avviata a piedi. Tu mi guardavi dalla nicchia che ti sei scavata nel sottobosco, allungandoti flessuosa come una candela fuori dalla terra. In mezzo allo smeraldo cupo dei germogli nuovi, sparpagliati tra le insenature fra i sassi, e al marrone vivo del terriccio, in mezzo a questa esplosione di vita, a questo caos primordiale, tu stavi da sola nella penombra del fogliame come una divinità indù nel suo tabernacolo dorato.
Mi sono fermata davanti a te e sono ammutolita: non che prima stessi parlando. Ma la voce nella mia testa, quella che parla di continuo, lei si è zittita davanti alla curva flessuosa del tuo corpo pallido come la luna. Nella tua pancia verde si racchiudeva forse un minuscolo abitante della luna, come nella storia del tagliatore di bambù? La tua singolarità aveva qualcosa di seducente, paragonabile solo alla curva sinuosa di una schiena bianca.
"Come ci si sente, a essere così diversi dal mondo che ci circonda?", ti ho chiesto. Ma la risposta la sapevo già.
E così ho chiuso l'ombrello: piovigginava ma non mi importava che i capelli si arricciassero, tanto stavo tornando a casa. La pioggia primaverile ha iniziato a scendere ugualmente su di te e su di me e allora anche tu devi esserti accorta della nostra incredibile somiglianza: come se si stessero guardando allo specchio, due bizzarre creature lunari si tenevano silenziosamente compagnia.
Poi ho ripreso il cammino. Lungo il fiume l'umidità faceva risaltare il profumo dolciastro delle foglie dei fichi.
Da allora ti ho pensato spesso, calla selvatica. Ma soprattutto ti ho invidiata: per quanto sola, distante e diversa io possa essere, non sarò mai bella quanto te.


10 apr 2016

"Il suono della montagna" di Kawabata Yasunari



Il suono della montagna


Quello di cui mi accingo a parlare, è uno dei romanzi a me in assoluto più cari.
Come sempre, quando si parla agli altri di qualcosa che ci sta particolarmente a cuore si ha il timore di non riuscire a trasmettere fino in fondo quel che ci ha colpiti, ma io ci voglio provare (possibilmente senza scrivere un papiro lungo tre kilometri).
Kawabata era un mago e non scriveva semplici libri: le sue parole sono incantesimi. Aprire un suo romanzo è come inciampare in una trappola fatale e staccarsi magicamente dal mondo.
Leggendo i suoi scritti si ha l'impressione di precipitare dentro abissi scintillanti dove le coscienze dei personaggi si riflettono e si scontrano con la bellezza della natura.

La trama in breve, senza spoiler


Shingo è un imprenditore ormai 60enne che vive con la moglie Yasuko, il figlio Shuichi e la nuora Kikuko.  L'uomo, pur non essendo eccessivamente anziano, sente che la vita sta volgendo al termine: ha frequenti vuoti di memoria, a volte sente il cuore cedere e da un po' di tempo fa dei sogni strani in cui ritorna giovane oppure rivede amici ormai morti da tempo che gli offrono del cibo.
L'uomo si interroga spesso su quanti errori, ormai giunto alla fine del suo percorso terreno, abbia commesso in passato e in che modo ciò ha influito sulle persone che più ama: infatti, entrambi i matrimoni dei suoi figli sono in crisi.
Shuichi, il maschio, rincasa tardi ogni sera dopo essere andato a trovare la sua amante; nonostante ciò, l'amabile Kikuko finge di non accorgersi quasi dei tradimenti e in ogni caso si comporta come se ciò non la addolorasse. Shingo, che prova nei suoi confronti un profondo affetto, sa che in realtà la giovane è distrutta; nonostante ciò non riesce ad affrontare il figlio e a rimetterlo sul giusto cammino.
Allo stesso modo Fusako, la figlia maggiore che Shingo si vergogna di non aver mai amato abbastanza, si sta separando dall'uomo con cui ha avuto due bambine.
Senza mai trovare il coraggio per imporsi sul figlio, Shingo inizierà comunque a indagare spinto dall'affetto per la nuora fino a scoprire chi è l'amante di Shuichi. L'uomo si vergogna di non prodigarsi altrettanto per rimettere a posto la vita di Fusako.
Le vicende di questa famiglia, i ricordi della giovinezza di Shingo e del suo primo amore, le parole degli amici ormai morti e il susseguirsi delle stagioni disegnano delicatamente i contorni delle emozioni e dei sentimenti di questi personaggi apparentemente ordinari. Ciò che accomuna tutti forse è il silenzio e l'imbarazzo: tutti sanno le colpe e i difetti degli altri, ma nessuno ha il coraggio di uscire allo scoperto e di rinfacciare all'interlocutore il dolore che prova a causa sua.

Considerazioni sull'opera 


"Il suono della montagna" non è un romanzo triste o negativo. E' vero che i personaggi soffrono, ma soffrono perchè in fondo si amano molto.
Quello che mi ha commosso nel libro è stata l'intensità della tenerezza di questa famiglia, dove tutti sono così feriti ma al tempo stesso capaci di perdonare e di sorvolare sulle colpe dell'altro.

Dopo aver vissuto un anno in Giappone completamente da sola, senza riuscire a instaurare alcun tipo di relazione affettiva, e dopo aver girato tre famiglie in cui non sembrava esserci alcun tipo di legame fra i genitori oltre alla missione di educatori, mi ero convinta (da vera stupida) che il popolo giapponese fosse culturalmente incapace di provare amore o affetto. E' un pensiero sciocco, che avevo basato unicamente sulla mia esperienza di una piccolissima fetta di popolazione.
Leggere "Il suono della montagna" è stato un sollievo: in mezzo a tutto questo dolore, vedere il rancore spazzato via in pochi istanti dal perdono è stato quasi liberatorio.
"Okay, sono stata sfortunata. Ma evidentemente la formula Giappone = solitudine eterna non è per forza vera o deterministica. Forse dipende da me, da quanto sono disposta ad ascoltare a capire il modo diverso in cui i giapponesi vivono le loro emozioni. Magari Giappone = amicizia. Giappone = affetto".
Quest'estate tornerò in Giappone e questo pensiero mi consola un po'. Prima ero convinta di tornare in una seconda casa dove però sarei stata trattata come un'ospite sgradita; adesso inizio a sperare di tornare nel posto in cui un giorno potrò vivere serenamente al fianco di persone disposte a perdonarmi con la stessa facilità dei protagonisti di questo romanzo.

Perché tutti dovrebbero leggerlo 


"Il suono della montagna" contiene un delizioso mix di vita quotidiana, introspezione, tenerezza e magia. Leggere questo libro è un'esperienza che tiene vivi i sensi ma che al tempo stesso intrappola la nostra coscienza e la distorce fino a farla diventare la coscienza dell'anziano Shingo, affettuoso, insicuro e tormentato dal senso di colpa... La coscienza dell'anziano Shingo innamorato come quando aveva vent'anni, o assorto a contemplare la corolla di un enorme girasole simile alla testa di un guerriero.
Se dovessi consigliare questo libro, non lo farei per la trama; lo farei per Shingo.
Shingo è un uomo buono, tenero, premuroso; dimostra il suo amore per la famiglia sia quando compra i frutti di mare freschi per tutti, sia quando mente spudoratamente alla nuora sul motivo per cui Shuichi rientra così tardi dal lavoro. Si commuove osservando la vivida bellezza di una maschera No e si sente maliziosamente attratto dal richiamo notturno della montagna, che sembra quasi annunciargli la sua morte imminente.

Poi, all'improvviso, Shingo udì il suono della montagna.Non tirava vento. La luna era chiara, quasi piena, ma l'aria della notte era umida.I contorni degli alberi che ornavano la collina erano vaghi. I rami, tuttavia, erano immobili. Anche le foglie delle felci sotto la veranda dove si trovava Shingo erano ferme. La casa si trovava in fondo a una terra stretta che a Kamakua chiamavano comunemente yato, la valle. Certe notti si udiva il suono delle onde. All'inizio, perciò, Shingo aveva pensato che si trattasse del suono del mare.  
Era chiaramente il suono della montagna, invece. Somigliava al suono del vento lontano, ma aveva una forza profonda come se si trattasse dei rimbombi della terra. Pareva quasi che qualcosa risuonasse nel suo capo. Il suono cessò. Dopo che il suono fu cessato, per la prima volta Shingo ebbe paura. Rabbidivì pensando che forse era il preannuncio della morte. 

So che con questa breve recensione forse è difficile cogliere la bellezza di questo romanzo: spero di avervi incuriositi almeno un po'.
Lo consiglio specialmente a coloro che devono ancora iniziare ad addentrarsi nell'universo di Kawabata: è un ottimo trampolino di lancio.
La citazione qui sopra è ripresa da una traduzione vecchia: le traduzioni più recenti sono più scorrevoli e rendono ancor meglio l'idea della bravura di Kawabata.

E voi, avete già letto questo romanzo? Conoscete Kawabata?
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Buona lettura <3

8 apr 2016

Le canzoni che "fanno sakura"

Ci sono canzoni che restano per sempre.
Anch'io ho tanti brani che per un verso o per un altro mi ricordano la primavera giapponese e, più in particolare, la fioritura dei ciliegi.
Ho pensato che sarebbe stato carino Condividerne un paio con voi.
Entrambe si chiamano "Sakura", e i più esperti di voi noteranno come i testi delle due canzoni siano alquanto semplici - non era un caso che le ascoltassi in loop durante il mio exchange year.

Sakura - Ikimonogakari




Sakura - FUNKY MONKEY BABYS (la canzone inizia a 0.50)



In Giappone, con l'arrivo della primavera, i cantanti fanno a gara a lanciare la propria canzone a tema "sakura".La canzone degli Ikimonogakari fu quella che ebbe più successo nell'anno in cui andai in Giappone e io la trovo bellissima.
Mi ricordo che quando andai a fare "hanami" al castello di Osaka, una macchina con gli altoparlanti gli girava tutto intorno trasmettendo a tutto volume tutte le canzoni che, accumulandosi anno dopo anno, oramai nell'immaginario dei giapponesi "fanno proprio sakura".

Chissà quest'anno qual è la canzone primaverile più in voga?

4 apr 2016

"Libro d'ombra" di Jun'ichiro Tanizaki


A proposito di Tanizaki


Suppongo di non essermi mai soffermata con voi su quel grande autore che fu Jun'ichiro Tanizaki.
C'è da dire che non è del tutto uno sconosciuto, visto le traduzioni italiane di molte delle sue opere sono facilmente reperibili, pertanto forse il suo nome non vi sarà nuovo.

Personalmente trovo che Tanizaki sia così apprezzato in Occidente poiché il lettore non deve sforzarsi eccessivamente di entrare nella mentalità giapponese.
Con questo non intendo dire che Tanizaki avesse uno stile prettamente occidentale, anzi: "Libro d'ombra" è la prova inconfutabile del suo profondo legame con le tradizioni; dico solo che lui, di tutti gli autori che ho letto finora, è quello più consapevole delle modalità in cui il Giappone si stava pian piano omologando al mondo occidentale.
Questa consapevolezza di trovarsi a metà fra due universi fa sì che la narrazione di Tanizaki non dia mai niente per scontato, e che il confine dove tradizione e modernità si incontrano sia sempre netto e distinto.
Quello che dico sarà particolarmente chiaro a chi ha già letto "Adolescenti"; "Libro d'ombra" esaspera questo contrasto senza eccessivo rammarico e con una vena ironica.

Libro d'ombra

"Libro d'ombra" è un saggio che Tanizaki scrisse nel 1933 spinto apparentemente da una riflessione fatta al momento in cui, decidendo di comprare casa, aveva dovuto conciliare la comodità delle modernità occidentali con l'estetica delle case tradizionali giapponesi.
In verità questo è solo un pretesto per esaltare il ruolo dell'ombra nell'estetica giapponese.
Tanizaki descrive accuratamente le case, poi il cibo, poi la patina del tempo sugli oggetti e infine l'ideale stesso di bellezza femminile: l'autore fa notare come ciò che rende davvero particolari questi elementi, ciò che dona loro valore e bellezza, è proprio la presenza della penombra e dell'opacità.
In particolare Tanizaki elogia la proprietà dell'ombra di far risaltare tutte quelle cose che, essendo particolarmente chiare o brillanti, non hanno alcun fascino se osservate in piena luce.

Anche gli occidentali sono vissuti per lunghi secoli senza elettricità, senza gas, senza petrolio. Non credo, però, che abbiano amato l'ombra come noi."
L'esaltazione di questa bellezza offuscata però non è contrapposta da una vera e propria critica al gusto estetico occidentale; piuttosto, credo che in parte l'intento di Tanizaki fosse quello di far percepire in primo luogo ai suoi connazionali a cosa stavano rinunciando nella loro corsa verso la modernizzazione.
L'Occidente ha privilegiato sempre la vista, quasi perdendo la sensibilità degli altri sensi.
L'ombra invece permette di predisporre i nostri sensi tutti sullo stesso piano e di apprezzare attraverso di loro la realtà in un modo nuovo e più profondo.

Perché leggere "Libro d'ombra"

"Libro d'ombra" va letto per un'infinità di motivi.


  1. E' uno dei saggi più importanti sull'estetica giapponese: che siate appassionati di architettura, di dipinti, di cucina o di moda, questo è uno dei migliori esempi attraverso cui capire l'arte e il gusto più tradizionale del paese del Sol Levante. In generale, se il Giappone e la sua arte vi piacciono, questo libro vi permetterà di capire più a fondo e apprezzare appieno certi dettagli.
  2. La lettura è estremamente piacevole: solitamente quando io sento la parola "saggio" provo istintivamente voglia di scappare. Diciamocelo, il genere è un po' noioso e solitamente si arriva ad apprezzare un saggio solo in due casi: quando l'argomento ci interessa particolarmente, o quando l'autore è così bravo da tenerci incollati alle pagine. Nel mio caso, "Libro d'ombra" rispondeva a entrambi i requisiti. La lettura scorrevole e la brevità vanno sicuramente a favore di questo libro.
  3. Le descrizioni: non so cosa ne pensiate voi, ma per me il vero piacere della lettura sta nell'immaginarmi quello che sto leggendo. Il bravo autore a mio avviso è quello che riesce a suscitare un'immagine nella mente del lettore con una manciata di parole. Al contrario, le lunghe descrizioni ricche di particolari sono un indicatore del pessimo scrittore. Tanizaki, con le sue descrizioni, non dimostra semplice bravura; lui è un genio. Con poche, semplici frasi non solo è capace di rievocare nella mente del lettore immagini di posti e oggetti che probabilmente non ha mai visto, ma è capace di fargliele sentire con il tatto, con l'olfatto e con il gusto.

    Ogni volta che odo brusire il brodo caldo contro le pareti della ciotola di legno - ed è un rumore sommesso, simile a un lontano coro di insetti autunnali, che mi invita a meditare sulla ciotola e sul suo contenuto -,mi sento colmo di una gioia estatica. Dev'essere simile, questo stato di ebbrezza, a ciò che prova il maestro del tè quando, nel suono dell'acqua dentro il bollitore, crede di udire il vento stormire tra i pini. 
    Si dice spesso che la nostra cucina non bada tanto a deliziare il palato, quanto a lusingare con le seduzioni proprie delle arti figurative. Io penso che le sue composizioni mirino anche più in alto. Si direbbe che intendano sprofondarci in meditazioni silenziose.
  4. L'immedesimazione: questo punto in realtà va a braccetto con il punto 3. Quando io leggo un libro ambientato in un posto lontano, in una cultura diversa, voglio sentire che mi sto immergendo in quella realtà. La letteratura è uno strumento utilissimo per imparare a vedere le cose da un punto di vista esterno e si può dire in qualche modo che veicoli l'abbattimento degli stereotipi e l'avvicinamento delle culture. Forse io, avendo vissuto in Giappone, posso dire di essere facilitata in questo processo. Tuttavia, credo che gran parte degli autori giapponesi abbia la capacità di trascinare il lettore nella narrazione. "Libro d'ombra" non vi renderà partecipi di una storia, ma per qualche ora vi farà diventare giapponesi. Sconvolgerà il vostro punto di vista, tanto da farvi stupire di certe caratteristiche del gusto estetico occidentale a cui non avevate mai fatto caso... e in quel momento posso assicurarvi che i nostri canoni estetici vi appariranno tremendamente pacchiani e grossolani! Non ci credete? Provare per credere!

In conclusione

"Libro d'ombra" è uno di quei libri che presto o tardi vanno letti. E' troppo importante, troppo famoso e troppo citato. E, come se non bastasse, è anche troppo bello.
Io lo consiglio sempre come primo approccio alla scrittura di Tanizaki perché è uno scrittore spesso molto ostacolato dai pregiudizi.
Molti non gli si avvicinano proprio perché le prime cose che si presentano di lui sono sempre il suo feticismo per il piede femminile e l'ossessione per la figura materna.
Credo che questa nomea non gli renda giustizia e che distolga il focus dalla cosa che conta davvero, e cioè che Tanizaki era un grandissimo letterato. Ha scritto decine di libri uno più bello dell'altro e ha tradotto tutto il Racconto di Genji in giapponese moderno. 

E voi, avete mai letto "Libro d'ombra" o altre opere di Tanizaki? Che ne pensate? 
Condividete il mio parere?
Se la recensione vi ha incuriositi non dimenticate di condividerla con chi conoscete.

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Grazie e buona lettura <3

1 apr 2016

"Ciliegi in fiore sul far della sera" - Racconti da diciassette sillabe da un haiku di Issa

Ciliegi in fiore sul far della sera
anche quest'oggi
è diventato ieri

Kobayashi Issa


«Posso aiutare in qualche modo?».
Il professor Morita  si voltò di scatto con aria sorpresa.
Poco prima, mentre tornava verso casa da scuola, il copertone della ruota anteriore della sua bicicletta si era smontato da solo e il professore era quasi caduto di sella.
Lì per lì aveva pensato che fosse un mancamento dovuto alla stanchezza - forse aveva  frenato involontariamente - e allora era smontato dalla bici e l'aveva accostata alla ringhiera lungo il fiumiciattolo proprio sotto il fascio di luce di un lampione.
Si era chinato stancamente guardandosi intorno: sperava infatti che non ci fosse nessuno nei paraggi. Il professor Morita zoppicava leggermente da una gamba, e ogni volta che rischiava di cadere o perdeva l'equilibrio temeva che la gente l'avrebbe guardato con commiserazione e pietà: l'idea lo deprimeva. Aveva vissuto tutta la vita fingendo di non dare peso a quel difetto, come se per lui neanche ci fosse, sperando di dimostrare a tutti che non aveva assolutamente bisogno di essere compatito; così facendo, lui era stato l'unico davvero infastidito dal proprio andamento oscillante. "Ognuno ha i suoi complessi", si ripeteva rassegnato.
Sul vialetto lungo il fiume sembrava non esserci nessuno e il professore aveva tirato un sospiro di sollievo. Aveva tirato fuori gli occhiali da lettura dalla sua cartelletta di pelle e li aveva inforcati per osservare meglio il copertone difettoso; con sua estrema sorpresa, scoprì che nella gomma spessa e dura che rivestiva la camera d'aria c'era uno squarcio lungo almeno quattro centimetri.
Si avvicinò ancor di più sentendosi ribollire il sangue nelle vene: il taglio, troppo preciso e pulito, era stato chiaramente procurato con una lama.
Il professore si alzò in piedi e si arruffò i capelli in testa borbottando qualche imprecazione: in casi come questo il suo buffo accento di Aomori si faceva più marcato.
Il professore era un uomo in grado di mantenere la calma in tutte le situazioni, e anche stavolta non pareva arrabbiato: piuttosto aveva l'aria vagamente preoccupata.
In verità, sentiva le orecchie andare a fuoco e non riusciva a raccapezzarsi di chi potesse avergli fatto un simile scherzo di pessimo gusto. Sicuramente qualche teppista, visto che a scuola era in buoni rapporti con tutti i suoi studenti.
Perso nei suoi pensieri non si era accorto della persona che si era avvicinata.

«Posso aiutare in qualche modo?».
La voce che l'aveva fatto trasalire era quella roca tipica degli adolescenti in pubertà.
Alle spalle del professore c'era un ragazzo alto e smilzo con i capelli rasati: sulla faccia ossuta gli occhi piccoli come due fessure lo scrutavano nervosi. Lo studente aveva la camicia della divisa stropicciata fuori dai pantaloni e sulle spalle portava un largo borsone blu.
«Mitani?», domandò il professor Morita con una vena di stupore, «che ci fai qui?».
Lo studente si grattò la nuca pelata ancor più imbarazzo e indicò il pesante borsone sulle sue spalle con un cenno del capo.
«Ero al club di baseball».
«Oh, questo lo vedo, ma perché oggi non c'eri a lezione?».
Mitani tirò su col naso e ignorando deliberatamente la domanda del professore tolse il cavalletto alla bici e cominciò a spingerla tenendo sollevatala ruota anteriore. Al di là delle apparenze gracili, Mitani era abbastanza forzuto da camminare sorreggendo il peso della bicicletta.
«Non so quanto le convenga riportarla a casa... forse è meglio affidarla a un riparatore di biciclette e prendere il treno», disse con la voce roca.
Poi tacque.
Il professor Morita era stato colto così alla sprovvista da essersi quasi dimenticato del taglio nel copertone, e comunque adesso non era più così arrabbiato. Era solo una stupida ruota. Piuttosto era contento che qualcuno si fosse fermato per dargli una mano. Non capitava tutti i giorni che qualcuno si fermasse per venire incontro al prossimo.
Mentre camminava con la sua andatura incerta al fianco di Mitani pensava a quanto si sarebbe sentito in imbarazzo se fosse stato qualcun altro a trasportare la sua bici; ma chissà perché, dal volto dello studente, così nervoso e acerbo, non traspariva traccia di commiserazione né sembrava che il suo gesto fosse stato dettato dal senso del dovere. Anzi, si sarebbe detto che dietro l'imbarazzo si celasse una candida felicità.
Gliene fu grato.

Il professore si rese conto di non sapere nulla di Mitani; lo vedeva per tre ore a settimana quando la sua classe aveva il laboratorio di falegnameria e gli era sempre sembrato un ragazzo normale, né troppo chiassoso né troppo taciturno. Non si poteva dire che passasse inosservato, con quei capelli corti e ispidi che lasciavano intravedere la forma del cranio e quegli occhi sottili che lo facevano sembrare un bonzo.
Il professor Morita si ricordò che Mitani gli era rimasto impresso anche per un'altra cosa: al contrario dei coetanei che avevano tutti le unghie quadrate e lucide, lui le aveva corte e stondate. Era impossibile non notarle perché quando maneggiava il legno sembravano proprio quelle di un falegname.
E con ciò? Il professore in fondo non conosceva nessuno dei suoi allievi ed era anche deontologicamente giusto che così fosse. Lui non aveva mai capito gli insegnanti che instauravano rapporti personali e colloquiali con gli allievi. Adesso però avrebbe voluto capire cosa spingeva il giovane Mitani a un tale gesto.
«Quest'anno i fiori di ciliegio sono durati parecchio, eh», mormorò lo studente, quasi volesse spezzare l'imbarazzo di quel prolungato silenzio. Il professor Morita alzò gli occhi verso i rami fioriti illuminati dal bagliore soffuso dei lampioni: era vero, i fiori erano ancora incredibilmente numerosi nonostante fossero sbocciati già da un paio di settimane.
Non ci aveva fatto caso, eppure passava da quella strada lungo il fiume due volte al giorno.
«Il tuo coordinatore di classe ha detto che ultimamente salti spesso le lezioni... mi fa piacere vedere che almeno al club ci vai».
Mitani rilassò le spalle: probabilmente era contento che il professor Morita non lo avesse sgridato.
«In realtà salto anche il club. Il capitano della squadra sta pensando di buttarmi fuori, se gioco senza essermi allenato è una perdita di tempo per tutti», rispose. Malgrado tutto sorrideva e il professore trovò il fatto alquanto bizzarro.
«E cosa fai, mentre non sei a scuola?», gli domandò senza riuscire a nascondere la sua curiosità.
«Faccio del bene agli altri».
Mitani si fermò e si voltò lentamente per osservare la reazione del professore, poi scrollò le spalle, sorrise e riprese a mandare avanti la bicicletta.
Il professor Morita, troppo interdetto per parlare, si limitò a seguirlo.

«Vede», riprese il ragazzo, «negli ultimi tempi mi sono un po' stancato di tutto il male che c'è nel mondo. Davanti a certe ingiustizie mi domando che senso abbia studiare o andare al club... Mi spiego meglio: lei non si stanca mai di vivere? Come se tutto questo incedere con fatica non avesse alcun senso? Come se non restasse nulla di buono, alla fine di tanti sforzi... ».
Il professor Morita si sentì punto nel vivo: era una cosa a cui pensava spesso e il fatto che un ragazzo così giovane fosse arrivato alla sua stessa conclusione lo fece rabbrividire.
«Ultimamente mi sveglio la mattina e il mio unico pensiero è di vivere senza peggiorare il mondo; anzi, per quel poco che posso, voglio provare a migliorarlo. Posso scegliere di far parte di quelli che vivono per sé stessi, di quelli che invece le hanno manomesso la bicicletta, oppure schierarmi dalla parte di quelli che migliorano la vita degli altri. Io sento di essere venuto al mondo per fare qualcosa di più che trovare un buon lavoro e costituire una famiglia... credo che noi esseri umani, al pari di tutte le altre cose, nasciamo per portare frutto.
«Insomma, guardi questi ciliegi in fiore. Li osservi, pensi a quanto danno in cambio del nutrimento che ricevono dalla terra e dalla pioggia. In ogni stagione danno una casa agli insetti e al muschio, portano ombra alle piante che crescono alla loro radici e fioriscono per rallegrare gli uomini, gli animali e il cielo.
«E ora pensi a quante cose può fare un essere umano; eppure viviamo tutta la vita portando meno frutti di un qualsiasi ciliegio. Questa cosa mi rattrista», affermò il giovane Mitani continuando a trasportare la bicicletta senza mai voltarsi.
Il professor Morita però non lo seguiva già più. Con le mani che tremavano si era fermato a guardare da sotto in su un tozzo ciliegio carico di fiori.
«Professore, tutto bene? Siamo quasi arrivati... Professore? Professore...», sentì la voce roca di Mitani richiamarlo da una decina di metri più in là.


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