28 lug 2016

A casa

La prima cosa che mi colpì appena tornata in Italia, fu l'odore tipico delle sere d'estate che mi investì appena uscii dall'aeroporto. Era un odore umido e pungente di cui le mie estati erano impregnate. Era un odore di casa.
Quasi non mi accorsi di mio padre che mi prendeva la valigia di mano; rimasi per qualche istante sopraffatta dalla nostalgia per un passato felice e indefinito che in quel momento realizzai non sarebbe mai tornato.
Il Giappone mi aveva sfiancata, mi aveva ridotta in brandelli dentro e fuori.
Se qualcuno mi avesse chiesto quella sera: “come stai?”, probabilmente avrei risposto “stanca”.
Stanca era riduttivo.

Eppure il Giappone mi è mancato ogni singolo giorno, in questi due anni. Mi è mancato così tanto... Mai – neanche per una volta – sono riuscita a detestare quel posto per come mi aveva trasformata, ferita, messa alla prova: mi aveva fatto crescere.

Negli ultimi tre anni ho ridefinito il mio concetto di “casa”.
Da “luogo in cui vivo” a “dove mi sento al mio posto nel mondo” - adesso per me “casa” è piuttosto un insieme di ricordi.
“Tornare a casa” è tornare fisicamente in luoghi che, per un motivo o per un altro, per me hanno significato qualcosa di importante – il vano tentativo di rivivere quelle esperienze che mi hanno fatto sentire viva.
Il Giappone è il luogo che meglio incarna questa definizione.

Da quando sono tornata – erano ormai due estati fa – ho cercato di colmare la distanza in vari modi: scrivendo, leggendo libri, studiando, ricreando nella mia stanza un piccolo angolo di Giappone. Tutto questo è patetico dal mio punto di vista, in quanto espressione di un disagio esistenziale tipico delle persone sociopatiche come me; tutti però lo scambiano per “passione” quindi suppongo che vada tutto bene.

Tra pochi giorni torno a casa e al pensiero sono così felice e incredula che quasi mi viene da piangere. Sono sicura che, uscendo dall'areoporto, la misteriosa esperienza della scorsa volta si ripeterà. Come cresciamo in fretta; tre anni fa una me completamente diversa metteva baldanzosamente piede fuori dalla stessa uscita.
Oggi non ho più neanche un briciolo di quella fiducia: non sono certa che il futuro mi riservi qualcosa di buono. Però sarò a casa.

In due anni di lontananza ho realizzato che il Giappone, paradossalmente, mi è mancato molto più dell'Italia e che a volte la nostalgia mi ha impedito di sorridere o sentirmi a mio agio per giorni; ho anche avuto il tempo per riflettere su molte cose, e adesso certe ferite non fanno più male.

Torno a casa per cercare di curare le altre ferite, quelle che non si sono mai rimarginate. Con un'exchange student di nome Alexia una volta ragionammo sul potere che ha il Giappone di curare l'anima delle persone: ha un modo tutto suo di farlo.
Prima ti prende e ti fa salire sul tetto del mondo: te lo fa assaporare bene, ti fa sperimentare una gioia genuina, una magia irriproducibile. Poi ti spinge giù. Esatto, ti lancia di sotto, ti fa fare un volo di centinaia di metri, ti pone davanti ogni tipo di ostacoli e, quando finalmente atterri, ti sorprendi di essere ancora vivo.
E ti rialzi, barcollante e malconcio, disperato, però ti rialzi. “Che strano modo di curare è mai questo?”, vi chiederete.
Io vi rispondo che è un modo efficacie. Vi accorgerete, quando avrete le ossa rotte e i sentimenti a pezzi, di tutta la forza che vi si nascondeva dentro. Capirete quali parti di voi non vi servono e quali invece rafforzare sul lungo cammino per risalire – da soli – sul tetto del mondo. La “cura” non è raggiungere l'obiettivo, ma rendersi conto ogni giorno di essere sempre un po' meno sbagliati di ieri. Un po' meno soli, un po' meno deboli, un po' meno egoisti.
In Giappone, anche quando ero in preda allo sconforto, mi sentivo abbracciata da un'entità benevola e antica come il mondo. Era lei che mi aiutava a cercare dentro di me la forza di andare avanti. Per quanto fossi esausta, non ho mai perso l'entusiasmo di vivere.
Qui invece mi sento spenta dentro.
Non sono più sicura neppure di cosa penso e di cosa provo, so solo che tutto mi lascia indifferente e che non riesco a prendere delle vere decisioni e che l'unico posto in cui tutto questo grigiore può riacquistare un senso è proprio il Giappone. Sì, a casa.

Una parte di me mi grida che è un'illusione: che niente mi restituirà l'entusiasmo e le speranze della diciassettenne che tre anni fa scese da quell'aereo con una valigia piena di sogni.
Però, a volte, mi capita che, presa dalla nostalgia, io guardi delle vecchie foto e mi senta battere in petto la stessa straripante gioia di quando le ho scattate e allora, mi dico, non è tutto perduto.

Non importa quanto dentro senta di appartenere a quel mondo, non conta la nostalgia che prova visitando un tempio quando sente il legno antico sotto i calzini, è tutto inutile.Chiunque la guardi non vedrà che una strana gaijin, un’aliena, un mondo parallelo.E allora dov’è la giustizia, se si deve vivere a metà fra il mondo di quelli che ti assomigliano fuori, ma che non ti possono capire, e l’universo popolato di uomini dallo spirito simile al tuo ma che non ti accoglieranno mai?

- da  "dea color ruggine"

Scatto del tramonto di Nanba (Osaka) - settembre 2013

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