15 feb 2016

Anima di Natsume Soseki



Natsume Sōseki,il cui vero nome era Shinnosuke Natsume, è il più grande autore giapponese dell’Era Meiji e – secondo molti critici – anche della letteratura giapponese in generale.
Non mi dilungherei sulla suo biografia se non fosse così fondamentale per capire l’importanza di ciò che scrisse.
Sōseki nacque a Tokyo nel 1867, ovvero alla fine di quegli anni tumultuosi in cui l’Occidente forzò il Giappone ad aprire le sue frontiere all’invasione fisica e culturale dell’Ovest industrializzato. Quando aveva un anno, salì al trono l’imperatore Meiji e il fatto segnò per sempre il destino di un Paese unico nella Storia.
Non sono qui per criticare fatti già avvenuti e ormai irreversibili, e fondamentalmente inevitabili, prima o poi.
Credo che la Restaurazione Meiji in realtà fu uno degli avvenimenti più stimolanti che la cultura giapponese abbia mai subito, e Sōseki ne è la prova concreta.
La seconda metà dell’Ottocento in Giappone fu caratterizzata da quella che io amo banalmente definire una “messa in discussione”; naturalmente fu molto di più, la rivoluzione politica e culturale di quell’epoca ebbe l’impatto potente e inaspettato di cento terremoti. Ma quello che mi piace puntualizzare è la risolutezza con cui tutti, dagli alti funzionari dello Stato pronti a sedersi in un Parlamento sullo stampo di quello inglese, fino ai giovani pronti a buttarsi a capofitto nello studio delle arti e delle lingue importate dall’Occidente, misero in discussione la propria cultura per inseguire il sogno di un Paese moderno e competitivo a livello mondiale.

Non è un caso che molti degli autori più apprezzati e famosi dell’epoca si siano laureati alla facoltà di Letteratura Inglese di Tokyo – e fra questi oltre Sōseki, voglio ricordare il maestro Akutagawa.
Credo che la grandezza, lo spessore e la profondità di scrittori come loro sia da attribuire a questa precarietà fra il prima e il dopo, la tradizione e l’innovazione, il passato e le tradizione che fanno parte di ognuno di noi e che ci vengono strappati con forza da un’onda nuova, misteriosa, sconosciuta.
Per l’appunto, la loro abilità fu nell’intuizione di andare a cogliere in mezzo a questa confusione e a questo sgomento il “cuore delle cose”.
Sōseki non abbracciò totalmente l’Occidente (neanche dopo i tre difficili anni trascorsi a Londra), né si schierò dalla parte dei reazionari conservatori della tradizione. Lui – come ho già detto – mise in discussione. L’una e l’altra, il fuori e il dentro, il passato e il futuro. Il suo lavoro letterario a mio avviso è il raffinato prodotto di una continua valutazione, di un osservare attento e di un soppesare i pro e i contro derivati dalla collisione di due mondi completamente diversi.
È senza dubbio questo il motivo per cui dalle sue opere traspare una serenità che va oltre la superficiale rassegnazione alla vita. Certi passaggi, certe espressioni, suscitano quasi tenerezza per la spiazzante onestà con cui l’autore descrive il cambiamento, poiché al contrario di quanto potremmo aspettarci non è né totalmente positivo, né totalmente negativo. Le pagine dei libri di Sōseki riportano tutto il trambusto di una Rivoluzione da cento terremoti a una dimensione umana, offrendo l’unica chiave di lettura appropriata per quell’avvenimento – ossia lo sguardo di chi l’ha vissuto sulla propria pelle.

Anima” (il titolo originale, Kokoro, è stato spesso tradotto come “il cuore delle cose”) è a mio avviso un capolavoro senza tempo.
Scritto nel 1914, due anni dopo la morte dell’imperatore Meiji, racchiude fra le sue pagine l’essenza degli animi di chi visse allora. L’anima, il cuore delle cose di cui si parla, non si riferisce all’interiorità dei personaggi, quanto a un sentimento collettivo dove le vicende personali di tutti, se ridotte all’osso e scarnificate, sembrano recitare lo stesso messaggio.
Non so se per Sōseki fu più facile arrivare a scavare nella realtà dell’animo umano proprio per la particolarità dei tempi in cui visse, o se fosse semplicemente un genio; il fatto è che “Anima”, che quest’anno compie il suo centoduesimo anniversario, è un’opera capace di commuovere ancora.
Commuove perché il lettore, qualunque sia la sua nazionalità, la sua lingua, la sua astrazione sociale, chiunque sia insomma, sentirà di aver provato quegli stessi sentimenti che animano lo studente e il maestro.

La trama è relativamente semplice: un giovane studente universitario conosce un uomo durante una vacanza al mare. Non sa per quale motivo, ma inizia a provare verso di lui un forte rispetto venato anche dal desiderio di ricevere da lui una sorta di approvazione; così inizia a chiamarlo Maestro e diventa un assiduo frequentatore di casa sua.
Il Maestro è un uomo particolare: vive con la moglie e una cameriera in una modesta casa piena di libri, non lavora e vive in modo del tutto asociale. A volte pare infastidito dalla continua presenza dello studente, altre semplicemente indifferente. In ogni caso non lascia trapelare niente di sé e del suo passato se non per concedersi ogni tanto di pronunciare qualche frase criptica e un po’ cinica a cui però non segue mai una spiegazione. Egli afferma di essere felice con la moglie, ma i due sembrano come separati da un muro, incapaci di rivelarsi ciò che di più profondo pensano.
Il Maestro ha anche la strana abitudine di recarsi al cimitero di Zoshigaya, una volta al mese, a visitare la tomba di un amico misterioso.
Per lo studente la figura del Maestro e del padre malato si sovrappongono, quasi come facce della stessa medaglia. Entrambi incarnano una figura maschile di riferimento, ma i sentimenti del giovane sono contrastanti: se per il padre naturale, figlio di un contesto rurale e antiquato, prova quasi irritazione e si sente in colpa per non colmarlo di tutto l’affetto che si meriterebbe, verso il Maestro l’ammirazione, la curiosità e la ricerca dell’approvazione si fanno di giorno in giorno più forti.
Lo studente sente che gran parte di ciò che lo affascina del Maestro è il frutto del suo misterioso passato e lo prega di rivelarglielo.
Sarà solo attraverso una lunga lettera che il Maestro però si libererà del fardello del suo passato e rivelerà allo studente le ragioni per cui detesta il genere umano, vive senza il bisogno di lavorare, si reca ogni mese al cimitero e il motivo del suo strano rapporto con la moglie.

Secondo il mio modesto parere, c’è un campanello d’allarme che l’autore suona poco prima della conclusione del libro per avvertire il lettore della portata universale del suo messaggio.
Ad un certo punto della narrazione, l’imperatore Meiji muore.
La notizia viene diffusa in tutto il Paese e ben presto trapela anche nel villaggio rurale dove vivono i genitori dello studente; il padre, che fino ad allora aveva resistito con tutte le sue forze alla malattia, peggiora improvvisamente. Nello stesso momento a Tokyo, il Maestro si sente in uguale misura attratto verso la morte.
Ecco come le due figure paterne dello studente, che non si sono mai viste e conosciute e che appartengono a due mondi totalmente diversi per ambiente, livello di cultura e astrazione sociale, subiscono lo stesso duro colpo.
L’Anima di cui parla Sōseki è quella di una nazione in simbiosi, scossa dalle stesse ansie e dalla stessa meraviglia, unita verso il sogno dell’innovazione e della modernità e al tempo stesso smarrita e sola non appena vengono a mancare i pochi punti fermi che le sono rimasti dentro un mondo in continua evoluzione. Gli uomini dell’Era Meiji e Sōseki stesso erano fondamentalmente esseri umani spaventati che si facevano forza aggrappati a dei simboli – che fossero essi un imperatore, una bandiera, un inno.

L’Anima è quella cosa calda e molle racchiusa sotto decine di strati di gusci che batte dentro ognuno nello stesso modo: ecco perché la morte dell’imperatore segnò così profondamente il padre dello studente, il Maestro… ma anche Sōseki e milioni di suoi contemporanei.

Il fil rouge del libro, in sintesi, è un viaggio introspettivo dentro i cuori dei personaggi che a poco a poco si trasforma in un’esplorazione di noi stessi, come a ribadire che siamo tutti diversi, ma che in quanto esseri umani ci accomuna un’essenza e che non importa quanti gusci le costruiamo intorno: è lei a dettare le regole nel faticoso incedere dell’esistenza.

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