2 feb 2016

Koto

Alla fine della mia permanenza in Giappone, decisi di ignorare gli impegni presi precedentemente con gli altri club e mi iscrissi alle lezioni di koto della scuola.
Non esistono parole per descrivere quanto io sia grata allo strumento che in un certo senso mi salvò dal periodo in assoluto più disperato della mia vita. Lo scoprii nel momento più giusto.
Non sono brava con gli strumenti musicali; per suonare serve pazienza, dedizione, senso del ritmo e mobilità nell’articolazione delle dita. Alle elementari ero la peggiore chitarrista della classe, alle medie quella con i voti più bassi nelle esercitazioni di pianoforte e in generale quando ballo ridono tutti.
Ero destinata a fallire anche con il koto, ma questo paradossalmente mi motivó: se suonavo partendo dll’idea che non avrei mai potuto raggiungere un buon risultato mi concentravo unicamente sulla sensazione dei polpastrelli contro le corde, sulle vibrazioni dell’aria e sul propagarsi del suono - insomma, suonavo unicamente per il piacere di farlo.
Il koto è lo strumento che fa il suono più bello, secondo me. Non è né una sfacciata chitarra, nè un lamentoso violino; anche paragonato al suono un po’ stridulo di altri strumenti a corda giapponesi come lo shamisen o il biwa, il koto risalta per la sua finezza.
La vibrazione delle corde ha un che di pulito e cristallino, fende l’aria come un elegante colpo di ventaglio per poi svanire timidamente, quasi ci avesse ripensato e volesse correre a nascondersi.
Questa caratteristica di vergognarsi della sua stessa bellezza fa del koto lo strumento più simile a un essere vivente che esista: in un pizzicamento di corda è condensato il presagio d’autunno che accompagna la vista degli alberi appena fioriti - il volo bruscamente interrotto degli uccelli e il ricordo nostalgico che una madre anziana conserva del figlio appena nato.
Ichiyo Higuchi scrisse nel suo celebre racconto “Koto no ne” che, udendo la melodia di un koto passando sotto una finestra aperta, un giovane delinquente si pentí della sua condotta e si commosse.
In effetti quello del koto è un suono un po’ triste, quello che ci ricorda che la felicità non è che una fase temporanea dell’esistenza. Ma proprio perché è cosí che ascoltarlo ci mette in condizione di accettare che certi avvenimenti ci piovano addosso, ci plasmino e ci segnino.
Il suono del koto ci pone di fronte all’unica verità, e cioè che la vita va presa come viene; suonandolo ho sopportato un sacco di cose.
Ho lasciato che le corde diventassero un’estensione di me e a volte che piangessero al posto mio.
La mattina ero solita prendere le chiavi dell’aula di musica tradizionale e lanciarmi giù per le scale, attraversare il giardino e catapultarmi a suonare prima delle lezioni.
Lei passava a prenderti proprio mentre io posavo la borsa in classe, e dalle vetrate vedevo tutto. Vi mettevate sulla panchina in giardino, mano nella mano, e io vi passavo davanti come se nulla fosse. A quell’ora il sole di maggio splendeva già alto e gli alberi del giardino erano già carichi di foglie verdi brillanti. Di quel tratto di cortile dalla scalinata all’edificio dell’aula di musica, ricordo solo il gesto meccanico di cercarvi con lo sguardo per accertarmi che foste lí e il chinare il capo per guardare le mie grandi scarpe nere calpestare l’erba giovane.
In quel periodo credo che non ci fosse una sola cosa che andava davvero bene; ero stanca di essere lontana da casa, sola senza aver stretto un solo vero legame; con la mia ultima madre ospitante stava inziando a andare sempre peggio, il mio peso era ormai drammaticamente sfuggito da sotto il mio controllo e tu - beh, tu sedevi con lei sulla panchina mano nella mano. Peró mi sentivo forte e invincibile come mai e all’epoca ero convinta che avrei potuto ottenere tutto ció che volevo. Insomma, io stavo affrontando tutto questo di petto, in un anno ero cresciuta, maturata e avevo imparato miliardi di cose e superato centinaia di difficoltá.
Sono stata una folle a pensare che questa forza e questo coraggio ormai non potessero più abbandonarmi. Oggi per esempio assomiglio a una grossa, brutta larva incapace di manifestare una qualsiasi forma di volontà. Pensare a domani (non al futuro, proprio a domani, 3 febbraio 2016) mi genera un forte senso di disagio e mi fa desiderare di sparire nel buio sotto le coperte.
Credo di non meritare di vivere, ma amo troppo la vita per farne ameno. Vorrei rinascere sottoforma di albero per non dover sopportare il rimorso di essere l’artefice di un destino patetico.
Se solo avessi un koto.
In questi momenti ripenso a quelle mattine di maggio in cui chiudendomi alle spalle le porte dell’aula di musica tradizionale e sedendomi davanti allo strumento, iniziavo a pizzicare le corde senza vergogna seguendo sempre il solito semplice spartito. Con lo sguardo al riparo dalla finestra l’immagine di voi due sulla panchina assumeva i contorni sfumati di un sogno, tanto che arrivavo a dubitare di averla mai davvero vista. Finché le corde vibravano, nessun dolore era abbastanza reale di fronte alla bellezza di quel suono.
Provavo una sensazione strana, quasi estatica, mentre le corde diventavano le maglie di un setaccio attraverso il quale goccia dopo goccia, ganello dopo granello, il mio spirito stanco di essere sballottato fra un sentimento e l’altro si liberava di tutto ció che lo appesantiva.
Starei meglio se oggi avessi un koto a cui affidare i miei sentimenti?

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