27 ago 2015

Storie Brevi - Naoki all'ombra del cedro

Miyuki si era trasferita a Tokyo da quasi sei mesi.
C’è chi dopo una delusione d’amore si taglia i capelli, chi si dà alla pazza gioia ubriacandosi nei pub e chi semplicemente decide di cambiare aria – e Miyuki aveva deciso che Tokyo era lontana  quel tanto che bastava per dimenticarsi di Aoi.
Ogni angolo di Osaka, ogni suono per strada, ogni luce continuava a ricordarle che in qualche modo avevano vissuto qualcosa insieme, per quanto insignificante le apparisse ora tutta la loro storia.
Quando qualcuno le chiedeva ingenuamente il perché del suo trasloco, Miyuki sorrideva misteriosamente e diceva solo che “aveva bisogno di vedere nuovi posti”.
Non era una bugia: l’aveva realizzato nell’istante esatto in cui guardando fuori dal finestrino dello shinkansen i grattacieli grigi della città erano scivolati via come drappi di seta e il treno si era tuffato in mezzo al verde scuro dei monti.
Osaka era sì un’enorme città, una metropoli con quasi otto milioni di abitanti, ma Miyuki si era accorta di quanto in realtà le stesse stretta non appena l’aveva vista scorrere via tutta uguale, tutta perfettamente inquadrata in uno schema ripetitivo di alti edifici e strade asfaltate e cartelloni pubblicitari arrugginiti.
Tokyo era stata diversa fin da subito, non appena lo shinkansen vi si era gettato prepotentemente dentro e aveva iniziato a decelerare: via via che la velocità diminuiva era sempre più facile distinguere le sagome di edifici nuovi con gigantesche pareti a specchio che sotto il sole brillavano come diamanti.
Miyuki si era sorpresa di scorgere qua e là, tra uno di questi grattacieli e l’altro, condomini di ogni forma e colore (da quelli rivestiti di piastrelle rosse a quelli intonacati di verde), con scale che si attorcigliavano come edera intorno ai loro scheletri massicci, terrazze piene di panni stesi, tende di bambù e dietro le ombre degli edifici si intravedevano templi silenziosi immersi in fazzoletti di erba verde…
E ancora canali larghissimi e torbidi sormontati da ponti azzurri, a loro volta sormontati da ponti gialli – e tantissime scale d’emergenza che facevano capolino fra un’intercapedine e l’altra – e file di villette in stile liberty affacciate sulle sponde dei fiumi come in una cartolina da Venezia in un giorno nuvoloso.
E tutti quei gradini di metallo ancorati al cemento che sembrano spuntare dal nulla e conducevano a porticine e passaggi nascosti…. Miyuki aveva pensato con ammirazione che Tokyo sarebbe stata indubbiamente il labirinto ideale in cui ambientare una fiaba moderna.
Quando aveva iniziato a lavorare nel ristorante era piena estate e le strade esplodevano di colori e schiamazzi.
Il lavoro la teneva impegnata fino a tarda sera, ma in fondo le andava bene: doveva pur sempre guadagnarsi da vivere, e in fondo portare vassoi pieni di curry profumato non era male.
Il suo appartamentino dava su un cortile interno pieno di piante che non mancavano mai di essere annaffiate, sì che ogni mattina l’odore dolce dell’asfalto bagnato sotto il sole si mescolava ai profumi dei panni stesi tutt’intorno e saliva fino al suo balcone.
“Ho fatto proprio bene”, aveva pensato nelle domeniche pomeriggio libere che passava distesa sul tatami con la faccia illuminata dal sole e il ventaglio in mano, “il pensiero di Aoi non suscita in me la minima reazione”.

Ma la magia di Tokyo se n’era andata con l’arrivo del freddo – e la consapevolezza di Miyuki di essere perfettamente sola al mondo la sorprese di colpo una sera mentre, seduta sul tatami con una coperta di pile addosso, era improvvisamente scoppiata a piangere assaporando il riso caldo e profumato nella sua ciotola. E se ora avesse detto che le mancava Osaka, che figura ci avrebbe fatto? Lei che se n’era andata, lei che aveva riso come una gradassa dicendo “ah, che libertà Tokyo! Che magia!”, si ritrovava arrotolata come un verme in una coperta di pile in un appartamento minuscolo a piangere su una ciotola di riso.
Doveva darsi un contegno.
E così ogni posto, anche il più misterioso, finisce col perdere il suo fascino quando viene inghiottito dalla routine.
A dicembre Miyuki non cercava neanche più di farsi degli amici al lavoro, né tantomeno di uscire da sola per locali a farsene qualcuno.
Tokyo era diventata grigia, fredda e brulicante di uomini simili a formiche proprio come Osaka.
Il giardino sotto casa era spoglio e rinsecchito, la terra gelata, e la nonna del condominio che se ne occupava solitamente girellava fra vasi e innaffiatoi coperta dalla sua felpa pesante, fingendo di essere indaffarata.
Di tutti i gatti del quartiere, ce n’era uno nero dagli occhi furbi che si metteva all’angolo del marciapiede ad aspettare che uscisse di casa e che  poi la seguiva con lo sguardo ogni giorno fino al semaforo.
Miyuki a volte si era fermata ad accarezzarlo, sperando che instaurando con lui una sorta di rapporto, il gatto avrebbe smesso di fissarla con tanta insistenza; ma lui allora la guardava più intensamente e con lo sguardo di chi è pronto a sputare sentenze e Miyuki si allontanava sconvolta, convinta che in quel gatto albergasse lo spirito di un essere umano.
Si può dire che, nella sua grande solitudine, Miyuki trovasse comunque con chi scambiare quattro chiacchiere: c’era il titolare del ristorante, per esempio.
Il signor Nakamura era un tipo gioviale e simpatico, e non esitava a chiamare Miyuki quando aveva bisogno di un po’ di personale extra sapendo che la ragazza aveva costantemente bisogno di soldi.
Lo faceva ridere il tipico accento del Kansai che Miyuki proprio non riusciva a camuffare; dopo la chiusura del ristorante, mentre facevano le pulizie e i conteggi, sintonizzavano la radio del locale su una frequenza che trasmetteva solo musica enka e cantavano a squarciagola per far passare più velocemente il tempo.
E poi c’era Naoki.
Con lui in realtà non parlava molto.
Lavorava nel ristorante dirimpetto e si ritrovavano immancabilmente alla stessa ora a trascinare fuori i sacchi dell’immondizia.
Una volta Miyuki aveva provato a instaurare una conversazione.
«’Sera».
«…’sera».
«Che freddo, eh?».
«E’ inverno».
Col tempo anche lui però aveva dovuto abbandonare un po’ della sua freddezza, spiazzato dal tipico buonumore della gente di Osaka. Sì, forse aveva iniziato a trovarla simpatica.
In un certo senso Miyuki sperava di piacergli almeno un po’.
Naoki non era il suo tipo, troppo distaccato e taciturno, e non le ricordava neanche un po’ Aoi ma c’era qualcosa nel modo in cui comunicava più con gli occhi che a parole, che per un attimo aveva fatto riaffiorare dal lago dei ricordi di Miyuki lo spettacolo di Tokyo quando l’aveva guardata per la prima volta dai finestrini del treno: nel suo sguardo sembrava ingarbugliarsi lo stesso dedalo di strade, palazzi e passaggi misteriosi.
Ogni porta segreta era l’inizio di una storia diversa, una per ogni individuo che ascoltasse il ritmo misteriosamente vivo e magico di quella città.
“Cosa nascondi, Naoki-kun?”,si era sorpresa a pensare Miyuki con improvvisa curiosità, immaginando di puntare una lampada sul volto appuntito di Naoki per illuminare le profondità delle sue impenetrabili pupille.
Se c’era una cosa che Tokyo aveva sicuramente rivelato a Miyuki, oltre alla sua spiazzante solitudine, era stata un’insopportabile nostalgia per Osaka.
Si sarebbe sentita soffocare laggiù, eppure a volte la mancanza di casa era così forte da farle venire la nausea.
Quando al ristorante arrivavano dei clienti di Osaka si sentiva stringere lo stomaco in delle tenaglie; l’intera atmosfera cambiava.
Veniva risucchiata indietro in uno dei suoi ricordi, al doposcuola di anni e anni fa, con i calzini bianchi arrotolati fino al polpaccio e la gonna a pieghe, il fiocco blu della divisa scompigliato dalla brezza marina e il vecchio cartellone con la scritta “takoyaki” dipinta di nero e rosso fuori dalla bottega accanto alla stazione.
I genitori seduti ai tavoli che raccomandavano ai bambini di finire, con i loro modi un po’ sbrigativi e affettuosi, si trasformavano automaticamente nei suoi genitori; i bambini di Osaka poi, con il loro profumo frizzantino, erano capaci di dare all’intero locale l’aria un po’ asettica e ariosa dei family restaurant nelle domeniche di fine estate.
Era giunta alla conclusione che la gente di Osaka fosse capace di ricreare, ovunque andasse, l’atmosfera calda e accogliente di quando si sta in famiglia.
La sua nostalgia non si fermava a questo però.
L’aveva constatato con orrore un sabato, facendo la spesa al supermercato.
Quando era arrivata ad imbustare i suoi acquisti, si era ritrovata fra le mani una confezione di preparato per pancakes; il vuoto nel suo petto aveva iniziato a farle quasi male, male da farla piangere.
E allora via verso casa a testa bassa, per poi sprofondare nel futon senza neanche rimettere la spesa a posto.
Si era rannicchiata sotto le coperte calde e aveva dormito per non pensare – ma soprattutto per non sentire.
I pancakes a colazione erano il loro rito domenicale: una loro dolce abitudine.
Fuori dal supermercato, nella mente di Miyuki si era disegnata la schiena di Aoi.
Aoi con il pigiama color yuzu, il grembiule rosso legato in vita, intento a mescolare il composto dei pancakes.
Se Miyuki avesse iniziato a piangere, forse anche le lacrime avrebbero avuto il sapore dolciastro del caramello.
Il sonno era arrivato prima che altri ricordi di quella vita insieme potessero riaffiorare.
Amava Aoi così intensamente da sentire il suo vuoto dentro.
Bruciava di rabbia.
Lui avrebbe dovuto chiamarla, avrebbe dovuto chiederle come stava. Perché Aoi non aveva sentito per lei la stessa terribile mancanza?
Poi si mordeva le labbra.
“Io l’ho chiamato? L’ho cercato? Ho tentato di fermarlo quando mi ha lasciata?”.
La risposta era no. Creature bizzarre, gli esseri umani…
E ora che doveva farsene di tutta questa tristezza? Sarebbe dovuta tornare nella sua soffocante Osaka con la coda fra le gambe?
Da allora lo sguardo del gatto nero era diventato carico di commiserazione.
“Rinunci a tutto per dimenticare un ragazzo e poi scopri di esserne tuttora innamorata?”.
Miyuki avrebbe voluto sbattere quel gatto in una gabbia, in modo da non ritrovarlo mai più sul marciapiede sotto casa.
Ma non si arrendeva, avrebbe ritrovato quel sentimento scintillante di stupore e aspettativa che le era scivolato dentro non appena aveva visto Tokyo.
Valeva la pena resistere e lottare con le unghie e con i denti pur di provare di nuovo quella scarica di adrenalina – e stavolta non sarebbe rimasta con le mani in mano ad aspettare che l’effetto della magia svanisse.
No, stavolta era intenzionata a saltare dentro quella magia, a farsi trascinare, ad arrampicarsi fra i grattacieli, su per mille scalette contorte, e avrebbe spalancato la porta che Tokyo teneva in serbo per lei.
Miyuki era a Tokyo da quasi sei mesi.
Era febbraio e faceva freddo; il cielo però era limpido e pulito e prometteva che quell’anno la primavera sarebbe arrivata in anticipo.
Certo, in una città come quella, dove tutti corrono indaffarati dalla mattina alla sera, in pochi alzano lo sguardo oltre le cime dei grattacieli. Miyuki, che se lo poteva concedere, si era stretta nel cappotto e aveva sorriso.
Il cielo non mente, aveva pensato.
La primavera era proprio quel che ci voleva. Sentiva che sarebbe bastata a farla sentire un po’ meglio, un po’ più al posto giusto.
Anche se era sola.
Anche se Aoi le mancava e il suo lavoro non le permetteva un appartamento più grande.
Anche se ormai aveva quasi ventisei anni, e a ventisei anni senti in fondo in fondo che non puoi più permetterti di vivere così alla giornata.
Attraversando il parco che separava la strada di casa sua dal ristorante si era però fermata improvvisamente davanti ad una visione rivelatrice.
Qualcosa di rosso e caldo, piccolo come un bocciolo di ume aveva ricominciato a batterle in petto in modo così vivace e naturale, e Miyuki non era riuscita a credere che si fosse mai fermato.
Un cedro, alto e rigoglioso, distendeva i suoi rami di colore verde intenso verso le propaggini del mondo.
Sotto, seduto su una panchina, Naoki sfogliava le pagine di un libro con le lunghe dita sottili; in grembo un soffice gatto nero sonnecchiava dondolando la coda.
Fu forse a causa dei tenui raggi di sole che filtravano fra gli aghi del cedro, ma improvvisamente tutto le apparve stranamente chiaro.
Forse Naoki, apparentemente assorbito da quelle pagine con i neri capelli a coprirgli gli occhi, sapeva più cose di lei di quanto non desse a vedere.
Forse il gatto aveva fatto la spia e ora Naoki era a conoscenza di ogni cosa, persino di quando aveva pianto sulla ciotola di riso, persino di Aoi.
Nonostante ciò Miyuki non si era sentita violata in nessun modo, anzi.
Naoki aveva alzato gli occhi su di lei. Aveva sorriso divertito.
Lui sapeva… lui sapeva qual era la porta di Miyuki.
Ce l’aveva scritto negli occhi neri e furbi, nel dedalo di strade, palazzi e passaggi misteriosi che si ingarbugliavano dentro le sue impenetrabili pupille.

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