Cielo
e oceano si fondevano l’uno nell’azzurro dell’altro formando una distesa
scintillante.
Osservavo
quella magia attraverso il vetro del pullman che attraversava il gigantesco
ponte fra l’Honshu, l’isola più estesa dell’arcipelago giapponese, e la più
piccola Awajishima, aspettandomi che da un momento all’altro pesci e uccelli
attraversassero quella sconfinata distesa blu gli uni accanto agli altri.
Per
una ragazza nata e cresciuta fra le colline del Chianti e fra gli stretti
vicoli fiorentini, la vastità dell’Oceano rappresentava ancora un mistero
affascinante paragonabile solo ai
viaggi nello spazio.
Avevo
vent’anni e mi sentivo leggera ed euforica come se fossi appena ritornata a
casa.
Il
Giappone, in effetti, era un po’ casa mia. Mi scorreva nelle vene, ma non
abbastanza perché la mia fisionomia non tradisse le mie origini lontane.
Mi
appartenevano la sua lingua e la sua storia, anche quella frutto di antiche
fantasie, come ad esempio la leggenda che vuole che Awajishima sia la prima
isola partorita dalle divinità ancestrali Izanagi e Izanami.
Di
fronte a me, in fondo al lungo ponte sospeso sul mare, l’isola sembrava
assopita sotto la vegetazione rigogliosa.
Scesi
circa un’ora dopo alla stazione di Minami-Awaji.
In
quella zona dell’isola, la vegetazione si faceva più rada e brulla per dare
respiro a una baia silenziosa con un minuscolo porto in cui erano ormeggiati
una decina di pescherecci.
C’erano
molti turisti. Posti come Awajishima o Tokushima erano mete predilette dei
viaggiatori che si spostavano in macchina dalle isole di Kyushu e Shikoku alla
più centrale Honshu.
Le
piccole cittadine marittime che sorgevano nei pressi dell’autostrada rappresentavano un ottimo luogo in cui riposarsi prima di riprendere il viaggio.
Erano costituite perlopiù da vecchi edifici in cemento in stile anni ’70 con
piccoli negozi di souvenir e ristoranti, alberghi termali e casette
tradizionali incastrate alle pendici delle montagne.
Awajishima
per me, però, non era né la sosta di un lungo viaggio, né la meta di un
soggiorno relax.
Tutto
era nato da un libro di Tanizaki, “Gli insetti preferiscono l’ortica”, con cui
avevo scoperto il mondo delle marionette Bunraku. Grazie alle parole dell’autore,
ero arrivata a comprenderne le sfumature stilistiche, la poetica e la forza
espressiva: adesso volevo vederle e apprezzarle con i miei occhi.
Quest’arte
tradizionale si era ormai quasi del tutto estinta e non sopravviveva che nel
luogo dov’era nata, ovvero l’isola di Awaji, in particolare nell’ enorme teatro
che mi si stagliava davanti, simile a un cappello da prestigiatore al contrario
e dalla superficie porosa come uno scoglio consumato dal mare.
Il
prossimo spettacolo sarebbe cominciato alle 13.30, ciò significava che avevo un’ora
di tempo per pranzare; decisi quindi di avventurarmi fra i turisti e di cercare
un ristorante nel vecchio centro commerciale accanto al porto.
Lo
trovai, affollatissimo, all’ultimo piano: sembrava più una grande mensa scolastica
che un ristorante. L’odore delle pietanze però era delizioso perciò presi posto
a un tavolo di fronte alla parete a vetri affacciata sul mare e ordinai un
piatto a caso dal menù.
Le
voci dei negozianti che vendevano pesce e molluschi essiccati giù, nel
porticato, arrivava fino a lì mescolandosi con il chiacchiericcio dei clienti.
Come
al solito, ero l’unica straniera.
Prevedevo
che, con tutta quella gente, mi avrebbero servita piuttosto tardi e perciò
tirai fuori il diario di viaggio e iniziai a prendere nota delle impressioni lasciatemi
da quel luogo.
La
penna scorreva sulla carta con una sorta di fretta febbrile, l’esatto contrario
del blocco dello scrittore.
Mi
interruppi solo quando mi fu servita l’ordinazione e mi trovai faccia a faccia
con un filetto di pesce ancora sfrigolante di piastra.
Ne
osservai la forma da diverse angolazioni, ma non somigliava a niente che avessi
già visto: aveva una pelle bianca e lucida, carne compatta e ossa rigide e
cave.
Ne
tagliai un pezzo con le bacchette e dalla polpa colò abbondante sughetto
profumato. Avvicinai il pesce alle labbra e lo assaggiai.
La
carne succosa mi si sciolse arrendevole sulla lingua, sprigionando un’esplosione
di sapori e fragranze che per un attimo mi annebbiarono i pensieri: mi sentii
leggera, come quando si realizza di trovarsi al posto giusto nel momento giusto.
Compresi
che doveva esserci qualcosa oltre alla qualità del pesce o all’elaboratezza della
ricetta.
Lanciai
uno sguardo verso la cucina, da cui cameriere con fazzoletti rossi in testa
entravano e uscivano indaffarate.
La
scena mi apparve sotto una luce diversa: tutte quelle persone che si davano
daffare nel ristorante dovevano amare profondamente il loro lavoro. Probabilmente
vivevano la stanchezza e il dolore in modi che la gente di città non poteva
neanche immaginare e condivano ogni loro azione con la passione per la vita che
questo luogo antico infondeva da generazioni nei suoi abitanti.
Nel
mio piatto, questi sentimenti si mescolavano insieme all’amore per il buon cibo
e all’ospitalità, infondendo al pesce un sapore squisito e irriproducibile da
qualsiasi spezia o condimento.
Più
tardi, fuori dal teatro Bunraku, mentre aspettavo il pullman di ritorno seduta
nella sala d’aspetto di Minami-Awaji, riportavo su carta le mie impressioni sullo
spettacolo di burattini.
Sotto
molti aspetti era stato completamente diverso dalla descrizione di Tanizaki:
diverso in modo bello.
La
meccanica di quelle bambole permetteva a chi le manovrava di riprodurre
movimenti realistici, fluidi, morbidi; muovevano le dita, gli occhi, alcune
cambiavano persino espressione o potevano far uscire delle corna da oni in cima alla testa.
Per
tutto il tempo, le pagine di Tanizaki mi erano riaffiorate davanti e ne avevo
compreso ancor meglio la bellezza struggente e l’incanto che si prova davanti a
una rappresentazione Bunraku.
La
musica accompagnava così bene le movenze dei burattini che sembrava scaturire
dai loro stessi corpi e la coordinazione dei manovratori dimostrava tutta la
loro sorprendente abilità.
Il
mio spettacolo preferito era stato quello di Yaoya Oshichi, che nel tentativo
di salvare il suo amato sfida il gelo della notte per suonare la campana
antincendio e distrarre la guardie, anche se questo metterà a repentaglio la
sua vita. La bambola di Oshichi aveva lineamenti così dolci e capelli tanto
folti da sembrare una ragazza in carne ed ossa; a distanza di tempo, vedevo
ancora la fantasia variopinta delle sue maniche ondeggiare come mossa da vere
raffiche di vento.
Solo
un dettaglio mi aveva sconvolta e tuttora faticavo a riprendermi dallo shock.
A
fine spettacolo, a luci accese, i burattinai avevano dato una piccola
dimostrazione di come si manovrassero quelle marionette dal meccanismo tanto
elaborato.
Durante la spiegazione, la bambola di Oshichi
aveva iniziato a muoversi con grazia e a ballare con l’eleganza di una maiko. A
un certo punto si era perfino portata la mano di legno davanti alla bocca,
aveva chiuso gli occhi ed era scoppiata in una risata civettuola.
Era
viva, insomma, una piccola persona in carne ed ossa.
A
dimostrazione finita, la burattinaia più giovane l’aveva presa in braccio e
portata dietro le quinte: la bambola le si era adagiata docilmente sulla spalla
come una bambina addormentata.
Solo
pochi istanti dopo notai che teneva gli occhi spalancati verso il vuoto.
Ma
come, un attimo prima rideva graziosa e ballava e adesso non era che un guscio
vuoto privo di vita, un cadavere accasciato sulle spalle di una burattinaia!
Una
volta scesa dal pullman, alla stazione ferroviaria di Maiko, rividi Yūto.
Di
spalle, aveva la pelle abbronzata e i capelli schiariti dal sole ma l’altezza,
la curva della schiena, le mani, il modo in cui camminava… era lui, ne sono
certa.
Lo
capii dal modo in cui senza indugio mi seminò, come al solito, senza mai
voltarsi indietro.
Non
sapevo cosa provassi: una parte di me continuava dolorosamente ad amarlo.
Ma
per il resto, quel viaggio mi aveva fatto riconciliare con un aspetto della
vita più vero e profondo.
Osservai
la sua schiena farsi sempre più piccola, finché non sparì.
Realizzai
che quel giorno il cielo mi aveva dato un’occasione irripetibile.
Questa
era l’ultima volta che lo vedevo: era andata proprio come due anni prima, solo
che stavolta ero pronta ad accettare quel triste finale.
E
mi guizzò in testa l’intuizione che l’Oceano, le stelle, le leggende, gli
spettacoli di burattini e la perdita di una persona amata non fossero altro che
modi diversi per dire la stessa cosa.
La
vita agisce attraverso forze misteriose che non possiamo comprendere e ci
regala gioia e tristezza proprio come il cielo dona alla terra il sole e la
pioggia per farle dare frutto.
Anche
ciò che ci fa male in realtà ci nutre e ci aiuta a germogliare, a crescere e
infine a sbocciare.
Non
dobbiamo chiederci il perché, dobbiamo solo avere fiducia. Sì, dev’essere proprio così, pensai.
Mi
gettai stancamente su una panchina in attesa del treno e scorsi rapidamente sulla
fotocamera le foto della giornata.
Eccolo
lì, lo scatto che aveva immortalato quel pesce misterioso e squisito.
Sorrisi
fra me, ripensando alla lezione che mi aveva insegnato, e lo ringraziai
mentalmente.
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